Oggi è un giorno speciale per il calcio italiano, perché compie 80 anni il ruolo di portiere. Nel senso più ancestrale, più vero del portiere, che nel puzzle del pallone è quello unico, quello che fa una scelta diversa dagli altri, che usa altri strumenti, le mani, l'istinto, l'acrobazia, il pensare un attimo prima dell'avversario, un coraggio speciale che deve prevedere anche la capacità di affrontare e gestire la solitudine, perché spesso il portiere è solo quando deve salvare la sua squadra, ed è sempre, inevitabilmente solo quando sbaglia. Quando un portiere riesce a sommare tutte queste cose, si dice nel gergo che è “nato portiere”. E seguendo questa logica, nelle nostre lande, il portiere è nato il 2 novembre 1939, a Pontremoli. Il suo nome è Enrico Albertosi. Per tutti Ricky, per tutti, o perlomeno quelli che l'hanno visto, l'immaginario del ruolo, il più romanzesco di tutti coloro che tra quei pali e quella traversa sono stati grandi. La carriera infinita, che è rimasta – eccome – tra le pagine chiare e le pagine scure di oltre 20 anni di calcio italico, la Corea e il 4-3 ai tedeschi, l'incredibile scudetto di Cagliari e quello quasi incredibile della Stella milanista, il calcioscommesse, e poi Riva, Rivera, e il dualismo con l'altro nato portiere poco dopo di lui, e con il quale ha condiviso amicizia, rivalità, litigi, elogi: Dino Zoff.
Ricky è romanzesco, sì, e vista l’occasione ci sta che ci sia proprio un romanzo a raccontare la sua saga, lo ha realizzato un gruppo di giornalisti e scrittori legati insieme da Massimiliano Castellani e da una filosofia di resistenza a un certo calcio che oggi, sulla schiena dell’inconfondibile maglione giallo di Albertosi, bestemmierebbe un 34 o un 99 non pensando che lì sopra ci può andare solo un numero, ed è l'uno. “Ricky Albertosi, romanzo popolare di un portiere", si intitola il volume. Dentro ci sono, tra gli altri, Furio Zara, Darwin Pastorin, Cosimo Argentina. C'è Beppe Viola, coetaneo di Albertosi, avrebbe fatto gli 80 anni qualche giorno prima del suo amico, con cui durante la settimana condivideva la passione dispari e pericolosa dei cavalli (e delle puntate ad essi legate) e di cui alla domenica a San Siro descriveva le prodezze di uno che – parole di Viola – “aveva lasciato un attimo i nipotini al parco”. Erano gli anni del Milan, fine dei ’70, e Ricky strabiliava per longevità atletica, a 37, 38, 39 anni guizzava come un gatto da un palo dall'altro tirando fuori il Diavolo dalla retrocessione, vincendo il campionato. Bisogna tenere presente che ai tempi, il quarantenne medio non è il Peter Pan ancora palestrato, supergiovane e aperitivista di oggi: la stragrande maggioranza era più fantozziana, brizzolata e dotata di pancetta, votata da tempo alla gestione ordinata di moglie-figli-ufficio. Albertosi, no. In campo un highlander dal capello lungo, il baffo assassino, le gambe affusolate sormontate da calzoncini sotto i quali, insomma, non c’era niente. Lo disse in un'intervista – scherzando – e si aggiunse immediatamente un’altra tacca sulla stecca del suo personaggio che a mani nude, senza guanti, viveva una vita fatta di vizi e virtù. Vizi, non mancava niente: poker, whiskini, cavalli si è detto, le scommesse che lo tradiranno, le donne, va beh, le donne, provate voi a essere Albertosi e dire di no. E le virtù: uno diretto, vero, capace di assecondare le passioni e il talento col lavoro. Non sarebbe arrivato a miracol mostrare alla soglia dei 40, non avrebbe avuto la stima di uno come Enzo Bearzot, che lo voleva portare come riserva di Zoff ad Argentina ’78. Sarebbe stato il quinto mondiale, come è poi riuscito Buffon; a opporsi fu proprio Dino il Perfetto, l'uomo di ghiaccio che tuttavia temeva di sciogliersi per la fonte di calore che si sarebbe trovato a fianco.
Tutte storie che fa bene ripercorrere tra le pagine del “Romanzo Popolare”, rileggere con le parole del Ricky intervistato da un immaginario Beppe Viola, tornato per un solo giorno al piano inferiore per incontrarlo in un ospedale, quello in cui Albertosi si trova nel 2004, più morto che vivo, colpito da un ictus in un ippodromo, guarda te il karma. Ma lo sanno tutti che i gatti hanno sette vite, e per fortuna, nonostante le vite vissute in multitasking, Ricky ne aveva ancora a disposizione. E oggi può festeggiare a Forte dei Marmi con la sua famiglia bella e numerosa, l’amata moglie Betty, i figli e i nipotini che oggi sono realtà e non più ironia del Beppe Viola su quel “nonno” che ancora si ostinava a essere il migliore, e che lo è stato veramente. Poi, per carità, Zoff, Buffon, Zenga, che è stato il suo vero erede in campo e fuori. Ma Albertosi è l'origine della specie, tutto quello che nel bene e nel male deve essere un portiere, che fa certo parte di una squadra, ma non può, non deve confondersi nella massa. E con quel maglione giallo, quei voli, quei baffi, Ricky lo spiegò meglio di qualsiasi altro, e per primo. Auguri Portiere.