Il ritmo del muscolo cardiaco è la conseguenza di un complesso sistema di regolazione

Corsa e cuore d'atleta: frequenze, gittata, ritmi di corsa e... piccole accortezze

Ecco cosa fare per non commettere errori nella pianificazione della preparazione

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Il nostro cuore vorrebbe non abbandonarci mai. E' predisposto per battere milioni e milioni di volte nel corso della nostra vita e lo fa senza bisogno del contributo della nostra volontà, nonostante il suo ritmo sia la conseguenza di un complesso ed efficiente sistema di regolazione. Se aumenta la richiesta di sangue a qualche distretto, il cuore batterà più forte, rallentando da solo quando tale richiesta sarà finita. Se siamo arrabbiati o spaventati il cuore batterà più velocemente, predisponendosi alla lotta o alla fuga, ennesima dimostrazione della stretta correlazione tra stati mentali e sintomi corporei.

La frequenza del nostro battito cardiaco è dunque soggetta a notevoli variazioni, la maggior parte delle quali non controllabili con un atto volontario. Il valore medio o istantaneo del battito cardiaco viene spesso correttamente utilizzato come indice di intensità dello sforzo, ma qualche cautela è necessaria se non si vogliono commettere errori nella pianificazione dell'allenamento.

Per esempio, se utilizziamo un cardiofrequenzimetro e decidiamo di allenarci impostando le variazioni sui battiti invece che sulle velocità, rischiamo magari di trasformare un “progressivo” in “regressivo”. Immaginiamo per esempio di voler svolgere un allenamento che preveda: 20' a 140 bpm, 20' a 150 bpm, 20' a 160 bpm. All'inizio vi sarà più o meno corrispondenza tra battiti e ritmo, ma via via che l'allenamento si prolunga, le altre risposte corporee (durezza muscolare, esaurimento scorte, inefficienza meccanismi di trasporto, danno cellulare, percezione mentale di stanchezza) influenzeranno il battito, così che, mantenendolo costante a 160, ci potremmo trovare paradossalmente a correre gli ultimi 20' ad un ritmo più lento rispetto ai 20' precedenti (previsti a 150 bpm).

Lavorare sui soli battiti porta spesso a rallentare nell'ultima frazione di gara, invece di insegnare a “tener duro”.

Il cuore nasce generalmente sano, ma può poi danneggiarsi nel tempo a causa della nostra disattenzione: ipertensione, aterosclerosi coronarica, aumento delle resistenze arteriose, per esempio, possono modificare struttura e funzione del cuore (miocardio) che può perdere – come ogni altro muscolo - parte della sue capacità di contrazione.

Quando si pensa al “cuore d'atleta” di solito si pensa ad un cuore sano e funzionale. Tuttavia nell'atleta si generano delle modifiche che sono in qualche modo simili a quelle che si riscontrano nel cardiopatico sedentario. Si ha ispessimento delle pareti cardiache, ed anche aumento della capacità complessiva dei ventricoli. Perché questo apparente paradosso? Si tratta in effetti di adattamenti prodotti dall'accresciuto fabbisogno di ossigeno (e quindi di gittata cardiaca) che accomunano l'atleta e il cardiopatico. Con una sostanziale differenza: il cardiopatico (anginoso, iperteso, con insufficienza polmonare ecc.) continuerà a dilatare le pareti a causa del perdurare della malattia, fino a che la forza contrattile non sarà più sufficiente a garantire un'adeguata irrorazione. L'atleta invece svilupperà in prevalenza tono cardiaco, così che non solo non sarà a rischio di scompenso, ma al contrario ne sarà protetto, disponendo ancora di un ampio margine di flessibilità una volta che decidesse di smettere (il che, naturalmente, non gli auguriamo mai).

Ancora una volta, in cardiologia come in ogni altra branca della medicina, il medico veramente preparato è quello capace di distinguere tra la cosiddetta “normalità del sedentario” e quella - vera - dell'atleta.

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