F1: Mario Andretti, compleanno da highlander

L'italo-americano compie 79 anni, vissuti tra trionfi, drammi e una breve storia d'amore con la Ferrari

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“In una delle prime stagioni della mia carriera ho perso in pista sette colleghi: due di loro erano miei compagni di squadra”. Parole, anzi pensieri di Mario Andretti, nato a Montona d’Istria il 28 febbraio 1940, settantanove anni fa: un sopravvissuto, ma sarebbe più corretto dire un highlander, capace di passare praticamente indenne attraverso rischi (appunto), vittorie, sconfitte, emozioni che hanno scandito una carriera iniziata alla fine degli anni Cinquanta e conclusa ufficialmente nel 1994 (ma solo per quanto riguarda le monoposto Indycars e Formula Uno). Praticamente indenne nel fisico ma non nell’anima: quella di Mario porta infatti graffi laceranti e segni profondi di drammi e tragedie come quelle citate all’inizio ed altre ancora. Su tutte, la scomparsa di Ronnie Peterson (anche lui suo compagno di squadra) nell’incidente al via del gran Premio d’Italia.

Quel 10 settembre del 1978 Andretti si laureò Campione del Mondo di Formula Uno: la gioia più grande di tutte nel giorno più triste di tutti, punto d’arrivo di una stagione da dominatore assoluto al volante della favolosa “79” (proprio come i suoi anni): la Lotus con le “minigonne”, o più esattamente la prima “wing car” vera e propria. Elegantissima nella livrea nero-oro John Player Special e tremendamente efficace. Andretti mise a frutto quell’anno la superiorità della monoposto ed il suo ruolo di prima guida nel team (per contratto) nei confronti di Peterson ma il titolo rappresentò il giusto riconoscimento ad una carriera con pochi eguali, nel corso della quale il “nostro” ha vinto anche negli Stati Uniti (la 500 Miglia di Daytona stock del 1967 e la 500 Miglia di Indianapolis del 1969, della quale tra tre mesi cadrà il cinquantesimo anniversario), oltre a quattro titoli in quella che oggi è la Indycar e che in passato si chiamava USAC (Mario ne fu il campione nel 1965, 1966 e nello stesso 1969) e poi CART (campione 1984). Difficile, molto difficile stabilire una gerarchia d’importanza per titoli e singole affermazioni di Andretti, proprio per via della complessità del personaggio e dell’arco temporale nel quale la sua carriera si è sviluppata. Addirittura impossibile poi separare la vicenda sportiva da quella umana. Le tribolazioni della seconda hanno creato le premesse per il successo della prima, che a sua volta ha parzialmente risarcito Mario delle sofferenze patite da bambino e poi ragazzino, al pari di tutta la sua famiglia.


Costretto a lasciare Montona quanto la penisola istriana venne assegnata alla Jugoslavia, per sette anni confinato con la famiglia in un campo profughi di Lucca, Mario ha trovato a Nazareth, Pennsylvania, il punto di partenza della sua...  rinascita ed un porto sicuro per tutta la vita. Le prime corse sugli ovali in terra battuta, poi il passaggio alle piste d’asfalto, le stock cars, i prototipi, le monoposto. Parnelli e Lotus, Eagle e Mclaren, Ferrari ed Alfa Romeo (a rinsaldare un legame con l’Italia mai venuto meno e continuamente, tenacemente riannodato e riaffermato nel corso degli anni). E poi ancora il ruolo di capostipite di una “dinastia da corsa” che gli ha permesso di correre ruota contro ruota nella CART/Indycar con i figli Michael e Jeff, oltre che con il nipote John, figlio di suo fratello gemello Aldo (anche lui pilota ma costretto ad abbandonare l’attività a causa di due gravi incidenti a distanza di un decennio uno dall’altro: nel 1959 e nel 1969) ed infine di seguire dal muretto box l’ingresso in scena del nipote Marco (figlio di Michael), oggi un top driver della Indycar. Fino al colpo di scena: la pazza idea di scendere in pista a Indianapolis nel 2003 (a sessantatre anni!) per un test al volante della monoposto del team dello stesso Michael, nell’eventualità di dover sostituire il titolare (ed infortunato) Tony Kanaan ed eventualmente qualificare per lui la monoposto in vista della 500 Miglia di quell’anno. Un test terminato con uno spettacolare incidente: la Dallara che prende il volo tra le curve uno e due dello Speedway, colpisce le reti, gira cinque o sei volte su se stessa ed atterra sulle sue ruote. Senza un graffio, Mario abbandona il relitto, rientra ai box e dichiara: “questa volta pensavo proprio di incontrare il Creatore”. Ma se hai vissuto quasi mezzo secolo a Nazareth... qualche santo in paradiso più della media di tutti noi devi pure essertelo guadagnato...

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