Erano le 14 e 17 minuti di domenica 1 maggio 1994 quando la Williams FW16 di Ayrton Senna tirava dritto alla curva del Tamburello di Imola a causa della rottura del piantone dello sterzo, provocando la morte del campione brasiliano, colpito in pieno volto da un braccetto della sospensione, una lama penetrata all’interno del casco attraverso il plexiglas della visiera. Quando il Destino non lascia la minima possibilità di scampo. Sono trascorsi venticinque anni da quel pomeriggio terribile, denso di sconforto e disperazione superiori solo all’incredulità. Senna dopo Roland Ratzenberger, ucciso solo ventiquattro ore prima dallo schianto della sua Simtek contro il muretto della Tosa, appena trecento metri più in là del Tamburello stesso, proprio quando il peggio (dopo il “volo” della Jordan di Barrichello alla Variante Bassa nelle libere del venerdì) sembrava già alle spalle. E ci si preparava ad un weekend di passione e di festa. E basta. Niente di tutto questo. Il peggio doveva ancora arrivare. La morte di Senna, una tragedia globale. Ancora oggi milioni di persone in tutto il mondo ricordano esattamente dove erano e cosa stavano facendo alle quattordici e diciassette di domenica primo maggio millenocecentonovantaquattro. Sarebbe accaduto di nuovo, probabilmente, solo sette anni e qualche mese dopo, l’11 settembre 2001. Ma ogni anno il primo giorno di maggio è come quel Primo Maggio e non solo per i tifosi di Ayrton e gli appassionati. Torna alla mente il groppo alla gola, sembra di precipitare di nuovo. Si cercava la compagnia perché da soli non si poteva stare: Senna era sempre lì. Giorni o forse settimane così. Per fortuna il Mondiale andava avanti. Fare e non pensare. Sono distanti e un po’ sfuocate le immagini dei funerali a San Paolo del Brasile ma sono ancora attuali quelle degli appassionati brasiliani che portano fiori, bandiere ed omaggi sulla lapide metallica in cima alla collina del cimitero di Morumbi.
La Fondazione Senna ha fatto molto, forse moltissimo, per i bambini brasiliani, per l’infanzia fortemente disagiata alla quale Ayrton voleva già da vivo restituire parte della fortuna che aveva ricevuto e parte di quella che aveva aggiunto grazie al suo talento. Sono lontane le polemiche sulla sicurezza e la sentenza del processo. Alla Williams, all'ambiente senza cuore della Formula uno, alle corse automobilistiche in quanto tali. Non hanno certamente perso di significato le imprese messe a segno da Senna nel corso della sua carriera irresistibile, per certi versi inarrivabile, iniziata sui kart in Italia, sbocciata con la Formula 3 in Inghilterra, fino all’arrivo in Formula Uno nel 1984 con la modesta Toleman, necessario gradino iniziale di una scalata trionfale, di una cavalcata lunga un decennio esatto: tre Mondiali vinti con la McLaren-Honda, 41 vittorie e 65 pole position. Oggi però i numeri, questi numeri, vanno riletti e rielaborati in chiave contemporanea: dando a Prost quello che è di Prost, a Schumacher quello che è di Schumacher, ad Hamilton quello che è di Hamilton. Tre, quarantuno, sessantacinque sono cifre, esattamente come venticinque: venticinque anni, oggi. Non completano la distanza, non colmano il vuoto, non restituiscono minimamente la grandezza di Ayrton, forse una vaga idea. Ma non basta. Resta il furore agonistico di Ayrton: da Antico Testamento. Resta lo spessore umano, restano la magia e la nostalgia. Che è sempre serena. Solo, in qualche momento, un po’ più “presente”. Scava un po’ troppo a fondo. Se sono venticinque anni, se ti capita di rivedere il casco giallo, di sentire quella voce e quella cadenza. Restano, anzi tornano ogni volta (e quando vogliono loro), l’intima soddisfazione e l’orgoglio di avere testimoniato in vario modo ed a vario titolo il passaggio di una cometa luminosissima. Prevale invece, per chi allora non c’era oppure era troppo giovane, lo stupore, forse anche lo scetticismo (l’indifferenza, quella speriamo di no) di fronte alle emozioni scatenate da un campione già così moderno eppure così diverso da quelli del presente, anzi unico. Magic.
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