Piccolo ma significativo dato statistico. Dal 10 novembre - tre mesi e spiccioli - il Milan ha perso solo due volte. Poche, ma non buone, anzi, disastrose: Bergamo e il derby, nove gol subiti, due disastri anche se estremamente differenti. Però gli schiaffi servono, a questa banda in rossonero. Dal pomeriggio prenatalizio dello 0-5, è scattata la ristrutturazione necessaria, non più procrastinabile della rosa: il fondamentale ritorno di Ibra, ma anche - o soprattutto - l’accompagnamento all’uscio di Milanello di calciatori che non portavano più nulla, né in campo, né in spogliatoio.
L’amara illusione del derby, invece, ha forse insegnato a una squadra che sta progredendo a soffrire, a tenere duro anche nei momenti di difficoltà: lo si è visto nella partita di Coppa Italia con la Juve (la migliore finora del 2020) e lo si è visto anche con il Torino, dove il Milan non ha certo esaltato - anzi -, ma ha saputo giocare insieme, rimanere compatto e concentrato nella lunga fase, durata dal 60’ in poi, in cui le energie sono venute a mancare. Insomma, segnali tutto sommato buoni, al netto di qualche crepa provocata da gente che proprio non si vuole sintonizzare, il ribelle Musacchio, il perennemente molle Paquetà.
A essere ottimisti - e lo vogliamo essere - si potrebbe intravvedere il trampolino per l’ennesima ricostruzione, che al di là di una eventuale qualificazione all’Europa League è il vero obiettivo di questi ultimi mesi di stagione. Il problema, però, è ancora una volta a Casa Milan. Perché ancora prima che sulla permanenza di Donnarumma o la caccia a qualche rinforzo pensato, le domande da porsi sono sulla compattezza del pacchetto dirigenziale, sull’unità di vedute tra la “proprietà” rappresentata da Ivan Gazidis e dai vertici tecnici, Zvone Boban e Paolo Maldini.
L’affaire-Rangnick può anche finire in niente: ma la candidatura di un tecnico che è anche dirigente, di un manager di campo e di scrivania non destabilizza solo Pioli (sicuro partente), ma anche le due bandiere, che con Ibrahimovic (e più modestamente anche con Kjaer, aggiungo) hanno dimostrato la bontà della loro teoria di inserire uomini di esperienza nel kindergarten milanista progettato da Elliott. Già ora, a febbraio, in un quadro tecnico ed economico complicato e ancora molto incompleto come quello del Diavolo, bisognerebbe iniziare a programmare, a scegliere, a prendere contatti, a capire chi sì e chi no.
Ma la selezione evidentemente deve cominciare dagli stessi selezionatori: o - come dicono anche a Palazzo Chigi - si trova una sintesi tra le anime del governo, oppure qualcuno deve prendere altre strade. Boban e Maldini non sono i padroni dell’Associazione, ed è chiaro che in caso di rottura insanabile sarebbero loro a uscire da Casa Milan. Ma rinunciarvi ora, dopo che hanno cominciato a capire e sanare certi errori, certe inesperienze, e ricominciare da zero con Rangnick o Sartori o chicchessia fa tanto gioco dell’oca: tiro del dado, esito casuale, casella che impone di tornare indietro, e così via. Un gioco molto differente da quello del calcio in cui il Milan è diventato campione assoluto nelle ultime grigie stagioni.