La prima parte del discorso è sotto gli occhi di tutti, nei titoli che rimbalzano dopo la sconfitta di Lione, ovvero nelle parole. “Non capiamo come mai...” sono di capitan Bonucci. “Non riesco a farmi capire...” sono in sostanza quelle di mister Sarri. Poi esistono altri piccoli grandi autogol verbali che lasciamo allo juventino indemoniato e purtroppo all’antijuventino che non aspetta che questi assist. Ma il mondo del calcio è questo, e lo conosciamo. Un mondo che ci piace e nel quale riusciamo a pensare positivo finché riusciamo ad aggrapparci al lato sportivo della vicenda. Allora la domanda può essere: la seconda parte del primo tempo è stato un falso negativo oppure l’ultima mezz’ora è solo un falso positivo?
Ed è esattamente qui che ci incartiamo, perché purtroppo è la stessa storia calcistica recente della Juve di Sarri a non permettere un dibattito serio dal quale ripartire costruttivamente. Ed è qui che abbiamo timore di esserci terribilmente complicati la vita: conosciamo davvero la nostra Juve, una volta arrivati agli emozionanti e pericolosi tornanti di febbraio e marzo? La risposta è no, e non ci siamo abituati. Neppure quando negli ultimi anni tirava aria funesta e poi funesta non è stata, e se è stata c’è sempre l’episodio, la sliding door o la superiorità avversaria. Succedeva, e allora si esultava o si incassava la delusione, consapevoli che il copione comunque non era stato casuale. Anzi.
Qui, alle porte di uno Juventus-Inter senza porte, senza cancelli, senza tifosi, senza pathos, senza certezze, senza la certezza di ciò che saremo capaci di fare, siamo in uno stadio diverso. Preghiamo perché lo stadio in questione sia soltanto mentale, perché davvero allora avrebbero ragione i messaggi neppure tanto cifrati - a turno - dei senatori della squadra. Messaggi che però possono essere anche letti come contenute urla di preoccupazione. Diciamolo: ci sentivamo tutti più vivi, più presenti e più fiduciosi dopo la scelta di Agnelli di spendersi pubblicamente a ridosso degli ottavi di Champions e di ciò che invece ne consegue di un campionato ancora aperto alle soluzioni più logiche e a quelle più assurde. Perdere a Lione, anche solo di misura, anche pensando di poter vincere 5-0 nella gara di ritorno, ha però un po’ di nuovo resettato tutto. Mi immedesimo nel tifoso nudo e crudo. E lo capisco.
Poi però tocca capire il campo. Il problema non è concedere venti minuti di coraggio agli avversari, il problema è cosa succede in quei minuti. Quante cose succedono. Quanto ravvicinate. Quanto incomprensibili agli occhi del profano rispetto all’intimo della settimana e dello spogliatoio. Perché così, come visto anche a Lione, le semifinali diventano una parola impronunciabile perché ti ricordi brutalmente di quanto sia lunga. Tanto più dopo lo scotto dell’anno passato. E voi direte: Pjanic non è presentabile (e si è pure allenato in pratica due giorni degli ultimi dieci), Rabiot spreca un’enorme occasione tradendo di fatto l’allenatore proprio sul più bello, quando c’è Danilo pensi a De Sciglio ma anche viceversa. Accetto tutto. Ma non riesco mestamente ad accettare invece che, a certi livelli, non si riesca a trovare Ronaldo e Dybala palla per terra dentro l’area di rigore. “Sono individualisti” ci ripete Sarri. Probabilmente ha ragione. Ma a me pare che sia la squadra a non riuscire ad accompagnarli. Loro, a volte Cuadrado, Douglas Costa quando c’è, devono salvarsi sempre da soli. Salvarsi per salvare la Juve: non è così che voglio approcciarmi al ritorno degli ottavi. Voglio il senso di squadra. Che non è il gioco. È l’Inter per come la si è affrontata a San Siro un girone fa. Qualcuno trovi il modo per riavvolgere il nastro a metà film. Che vogliamo tutti ricominciare subito, perché il tempo sta per scadere.