Oggi Agostino Di Bartolomei avrebbe compiuto 65 anni: era nato infatti l'8 aprile 1955. Con la maglia della Roma divenne capitano, leader, uomo simbolo anche nei giorni dello scudetto 1983 (circondato dai Falcao, Bruno Conti, Pruzzo e Ancelotti). Poi la finale di Coppa dei Campioni persa contro il Liverpool, il travagliato addio. E dopo il trasferimento a Castellabate, in provincia di Salerno, un suicidio che ancora oggi è impossibile accettare.
Roma, 8 aprile 1955: da qualche parte a Roma nasce Agostino Di Bartolomei, un ragazzo che crescerà a Tor Marancia e che oggi avrebbe quindi spento 65 candeline su una torta. Ma quella torta oggi non c'è, sostituita da un groppo in gola di chi quel ragazzo si è ostinato a non capirlo. A non interpretarne i silenzi, garbati come la sua educazione gli imponeva, ma più dolorosi di quanto il suo naturale carisma facesse trasparire. Il carisma degno di un trascinatore anomalo, che esercitava tale dote non alzando mai la voce o un sopracciglio, ma con l'esempio. Con una grinta mai ostentata, ma che non poteva che ispirare chi gli stava attorno. Un Ettore dei giorni nostri, che esattamente come l'eroe troiano era atteso da un finale tragico.
Sin dagli anni della scuola, Agostino orbita in squadre di ragazzini legate a filo diretto con la Roma. E il suo destino è chiaramente a tinte giallorosse: proprio la Roma gli dà una possibilità, e il debutto in serie A arriva nel 1973 a diciotto anni e 14 giorni d'età. Era, quella, la Roma di Helenio Herrera, che aveva però da poco lasciato la panchina al tecnico della Primavera Trebiciani: troppo deludente un undicesimo posto in classifica, pure se in una squadra in evidente fase di ricostruzione. E con una nidiata di giovani scalpitanti pronti a esplodere.
Sono i Franco Peccenini, Francesco Rocca, più avanti Paolo e Bruno Conti. Saranno tutti bandiere della Magica, senza mai mettere in discussione il ruolo di 'Ago': il leader del gruppo è insindacabilmente lui. In anni in cui anche nel calcio iniziano a farsi largo stramberie stilistiche e bizzosità caratteriali (si pensi a cosa combina un certo Giorgio Chinaglia sull'altra sponda del Tevere), Di Bartolomei colpisce per la sua normalità, che però è solo apparente. Alto ma non imponente, robusto ma non un bisonte, con un look decisamente anonimo negli anni delle ultime frange e dei primi basettoni. Un giocatore che magari in campo lascia la luce dei riflettori ad altri (l'amico Bruno da Nettuno non se lo fa chiedere due volte), ma che è sempre tra i migliori in campo. E magari in una sfida sui 100 metri non sarà in grado di competere con tutti i compagni, ma è in possesso di un'intelligenza, una velocità di pensiero, un senso tattico che gli permettono di arrivare sul pallone prima ancora che l'avversario abbia deciso che tipo di azione voglia fare.
Uno così non può che essere capitano: e la fascia, quasi naturalmente, gli arriva tra il 1979 e il 1980, con il predecessore Sergio Santarini ancora in squadra. Lo scudetto del 1983 si tinge di giallorosso e premia una squadra formidabile: ci sono Ancelotti e Falcao, Conti e Prohaska, Tancredi e Vierchowod, Pruzzo e i giovani Nela e Giannini (che giocherà solo in Coppa Italia). Ma il loro capitano è Agostino, che in campionato segna anche la bellezza di 7 gol: gli stessi di Falcao, secondo marcatore dei campioni d'Italia dietro al solo bomber Pruzzo. Passa un anno e quella squadra arriva alla finale di Coppa dei Campioni, peraltro giocata allo Stadio Olimpico. Un'occasione unica: Di Bartolomei, che su palla ferma è un mago, il suo rigore lo segna e in quel momento la Roma è campione d'Europa. Falcao però sul dischetto non si presenta, i due big Conti e Graziani sbagliano: la buffa danza di Grobbelaar tra i pali ha successo e il Liverpool solleva la coppa.
Quel 30 maggio 1984 si rompe qualcosa: Di Bartolomei farà in tempo a vincere la Coppa Italia un mese dopo, quindi la sua bandiera viene ammainata. Agostino discute con la società e se ne va: lo accoglie il Milan del suo vecchio maestro Liedholm, con cui va pure in gol contro i giallorossi alla prima da ex a San Siro. Nella rabbiosa esultanza di un leader ferito c'è tutto il dolore di Agostino, che mai avrebbe lasciato la sua squadra e la sua città e che proprio contro di esse perde il suo proverbiale aplomb. Il ritorno all'Olimpico sarà ancora più traumatico: tutto lo stadio lo fischia.
Fa troppo male: l'avventura al Milan dura il tempo di tre anni, giusto in tempo per vedere Silvio Berlusconi acquistare il club. Poi Cesena, per un ultimo giro di giostra in serie A, e Salerno: qui nel 1990 arriva l'addio al campo, dopo due anni di C1 con la Salernitana, ma anche l'amore di Marisa. E il trasferimento qualche km più a sud, nel Cilento: a Castellabate. La cittadina poi resa celebre e simpatica a tutto il Paese grazie a 'Benvenuti al Sud', però, ha in serbo una brutta sorpresa per questo campione troppo silenzioso perché il crudele mondo del calcio lo rispettasse: dimenticato dalla Capitale, dove invano cerca di rifarsi una vita lavorativa, 'Ago' si butta nel mondo delle assicurazioni e in una scuola calcio. Ci crede profondamente: "Voglio che i ragazzini amino il calcio fin da piccoli, non imparando da alcuni miei capricciosi colleghi", afferma senza giri di parole.
Ma i progetti naufragano: investe nel sogno di regalare un sogno ai più piccoli, palla al piede, ma le banche non sono d'accordo e le amministrazioni non lo aiutano. Così, il 30 maggio 1994 (dieci anni esatti dopo quell'infausta finale di Coppa Campioni) lo sparo, con una Smith & Wesson 38 Special. Agostino Di Bartolomei muore così, a 39 anni, lontano da una città che aveva guidato da condottiero e che lo aveva lasciato andare via senza combattere. "Mi sento chiuso in un buco, i fondi della regione sono ancora fermi e il Comune non regolarizza le carte. Il mio grande errore è stato cercare di essere indipendente da tutto, di non aver saputo dire di no su nulla. Non vedo l'uscita dal tunnel", troveranno in alcuni foglietti azzurri nelle sue tasche, che i Carabinieri ricomporranno dando forma all'ultimo messaggio di 'Ago'.
"Non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore", aveva scritto Francesco De Gregori pensando a lui. Il 'Nino' della canzone aveva paura di sbagliare un calcio di rigore: Di Bartolomei no, perché non aveva paura. Ma fu travolto dalla solitudine, l'impotenza, la consapevolezza di essere stato abbandonato da un mondo che amava. E che lo ha lasciato andare via in silenzio. Il silenzio di un eroe rimasto solo.