Quando si dice che la perfezione non esiste, forse è perché non ricordiamo il gancio-cielo di Kareem Abdul-Jabbar, leggenda del basket che oggi 16 aprile compie 73 anni e di cui sarebbe superfluo ricordare tutti i record. Ma alcuni di questi vanno menzionati per capire l'ordine di grandezza del “Captain”, che ha continuato a giocare fino a quando la carta d'identità segnava 42.
Nato a New York come Ferdinand Lewis Alcindor jr., cambiò nome nel 1971, anni dopo essersi convertito all'Islam. Ha realizzato 38.387 punti in Nba, lega di cui è il miglior marcatore di sempre, con il secondo (un certo Karl Malone) a debita distanza (36.928). Il terzo in questa classifica, LeBron James, dovrà disputare altre tre stagioni con 20 di media a partita, giocando praticamente ogni gara, per dare l'assalto al primato. E già adesso il Prescelto ha 35 anni.
Tuttavia, sarebbe ingiusto ridurre la grandezza di questo centro ai record, per quanto siano difficilmente ripetibili e conditi da sei titoli Nba, tre Ncaa (il campionato universitario), i sei titoli Mvp della regular season e i due delle Finals. Abdul-Jabbar è stato anzitutto un personaggio anti-sistema: nel 1967 si unì a campioni sportivi neri come Muhammad Ali, Bill Russell e Jim Brown per protestare contro la guerra in Vietnam e le discriminazioni razziali. Per questo decise di non rappresentare gli Stati Uniti ai Giochi Olimpici del 1968: era solo uno studente universitario ma aveva idee chiarissime in testa.
Se fu capace di affrontare a testa alta una società intera, figurarsi quello che poteva fare in una lega. Dal punto di vista cestistico sarebbe meglio partire da una foto. Una a caso, anche cercando su internet. Impossibile non notare gli occhiali protettivi: li indossava perché da bambino ebbe un danno alla retina dell'occhio sinistro. L'infortunio gli causò problemi di vista e lo portò a sviluppare in maniera spiccata una dote fuori dal comune: la cinestesia, cioè la percezione esatta di dove e come il corpo si debba muovere in relazione al contesto, anche senza gli stimoli dei cinque sensi. Da un problema Abdul-Jabbar aveva generato una qualità quasi extrasensoriale. Una qualità che avrebbe tradotto in uno dei gesti tecnici più puliti della storia del basket: il gancio-cielo. Con questo tipo di azione, “The Captain” metteva il corpo tra difensore e palla, stendeva il braccio fino all'estensione massima e rilasciava il pallone in salto con il movimento del polso spezzato. Contemporaneamente, con l'altro braccio teneva a distanza il difensore, che era ridotto praticamente all'impotenza. Fisica e tecnica, perché molte volte Kareem andava talmente in alto da imprimere al pallone una traiettoria discendente: l'avversario poteva anche intercettarlo, ma avrebbe commesso “goaltending” e concesso due punti. Tanto valeva non sforzarsi.
Il piccolo Alcindor provava questo tipo di conclusione già a nove anni, nei campetti di New York: la prima volta non prese nemmeno il canestro ma sapeva di aver trovato la strada giusta. A dir la verità nella Grande Mela non si trovava molto a suo agio: si vergognava della sua altezza, era preso in giro dai compagni di scuola ed era un problema persino aspettare l'autobus. Ma, notato da un allenatore, entrò nella Power Memorial Academy (un liceo) e capì che la palla a spicchi lo avrebbe definito come atleta. Si trasferì a Los Angeles per studiare alla Ucla e diventare una stella del basket. D'altronde Alcindor a 12 anni era alto già 205 centimetri, ne avrebbe guadagnati altri 13 nello sviluppo. Quello che più impressionava, però, era la sua apertura alare: 228 centimetri da mano a mano. La Ncaa, intimorita dal suo arrivo, proibì la schiacciata, ma non sapeva di aver gettato le basi per la produzione dell'arma offensiva più devastante della storia del gioco. Alcindor, sgrezzato da coach John Wooden, perfezionò il gancio-cielo e con lui in campo la Ucla vinse 88 partite, perdendone solo due in tre anni. Arrivarono (ovviamente) tre titoli, e nel 1969 il centro era pronto per sbarcare in Nba. Campionato in cui confermò la sua letalità: solo Wilt Chamberlain poteva tenergli testa sotto canestro. Ma “Mister 100 punti” era a fine carriera e Alcindor divenne presto l'uomo di punta incontrastato della lega. Guidò i Milwaukee Bucks al primo (e finora unico) anello nel 1971 con 31.7 punti e 16 rimbalzi di media a partita. Poi decise di cambiare legalmente il suo nome, divenendo Kareem Abdul-Jabbar, il cui nome islamico significa “potente e generoso servitore di Allah”. Nel 1975 tornò a Los Angeles per giocare con i Lakers e dal 1979 fu Showtime con l'arrivo di Magic Johnson: in gialloviola vinse il titolo nel 1980, 1982, 1985, 1987 e 1988, prima del ritiro datato 1989, quando comunque aveva una media di 10.1 punti a partita e una percentuale del 47.5% dal campo. I Lakers gli hanno dedicato una statua in bronzo del suo movimento, l'incontrastabile “Skyhook”, nella Star Plaza appena fuori dallo Staples Center. Nel caso qualcuno pensi che la perfezione non esista.