Lunga lettera di Adriano indirizzata ai tifosi dell'Inter (e pubblicata dal club sul suo sito ufficiale), che ancora ricordano il brasiliano come uno dei più grandi rimpianti per ciò che avrebbe potuto essere ma non è stato, anche a causa di alcuni gravi problemi personali che frenarono l'ascesa dell'Imperatore nella fase clou della sua esperienza in nerazzurro. A raccontarli, e a raccontarsi, è stato proprio il brasiliano. Ecco alcuni dei passaggi più significativi della lettera.
"Avete presente il mio sinistro, potentissimo? Ecco, l’ho allenato e coltivato fin da bambino. Distruggevo le porte e diversi oggetti in casa, mamma era disperata. Anche per questo aveva deciso di portarmi al Flamengo, per iscrivermi alla scuola calcio. Bisognava pagare, però, per il tesseramento. E papà sapeva che non avevamo i soldi: non ce lo potevamo permettere. Mamma Rosilda, però, non voleva certo negarmi quel sogno: disse a papà che sarebbe stata nostra zia ad aiutarci a pagare la retta. Una bugia, a fin di bene, coperta con un lavoro extra: si mise a vendere caramelle e altro per strada".
Un sorriso in un'infanzia difficile per Adriano: "La felicità è una cosa semplice. Ha il sapore dei pop-corn che vendeva mia zia, per strada, con il carretto: “pipoca”, ne mangiavo così tanti che è diventato il mio soprannome. Ha il colore della polvere che sollevavamo calciando il pallone, a Vila Cruzeiro. In un campo dove ho giocato ogni giorno della mia infanzia. Calzoncini e piedi nudi. Questa è sempre stata la mia divisa preferita. Non c’è bisogno che vi spieghi i motivi di quella scelta: è la vita dei bambini che crescono in una baraccopoli. Avevo 10 anni e in un pomeriggio come gli altri sentii i sibili dei proiettili che fischiavano per strada. Uno di questi si conficcò nella testa di mio papà, Almir. Colpito per caso, per sbaglio. Se vivi in una favela non vedi un futuro, ma io ho sempre cercato di pensare un pochino più alto, anche grazie al calcio. Ogni tanto mi mettevo all’angolo della strada a lustrare le scarpe per qualche soldo. Scuola, allenamenti, i pomeriggi ad aspettare. Il giorno in cui papà Almir è tornato a casa è stato uno dei più felici di tutta la mia vita".
"È difficile nascere e crescere in una favela e immaginarsi un futuro diverso, brillante" spiega il brasiliano, per cui la chiamata dell'Inter fu davvero il coronamento di un sogno: "Il calcio mi ha dato autostima, obiettivi nella vita, determinazione ed equilibrio. Il calcio è sinonimo di speranza e di umanità. Mi ha permesso di vivere una vita che non avrei mai potuto avere con un’altra professione. La chiamata dall’Europa, dall’Italia, è arrivata presto. Non ero né nervoso né preoccupato: ho preso l’aereo per Milano pieno di felicità ed entusiasmo".
E poi quel sinistro atomico al Bernabeu: "E sì, l’inizio è stato proprio da sogno. E rimane ancora oggi, tra mille partite e momenti, il ricordo più bello, quello a cui tengo di più. Ero arrivato da pochi giorni, mi aggregano alla trasferta di Madrid. Il 14 agosto 2001 entro al Bernabeu. Ho la maglia dell’Inter, di fronte c’è il Real. Già così, poteva bastare. E invece entro in campo. Non penso a nulla, gioco come se mi fossi trovato sul campo di terra battuta a Vila Cruzeiro. Dribbling, tunnel. Mi riesce tutto. Mi procuro una punizione, dalla panchina mi invitano a tirarla. Ricordate quel sinistro che allenavo in casa e per strada, quello che faceva impazzire mia mamma? Ecco, l’ho presentato al mondo con quella punizione, dicono andasse a 170 all’ora!".
Un inizio 'da sogno', ma poi nel 2004 arrivò la otizia che cambiò la sua vita: "Calcio, gol, emozioni. Poi però le notizie sanno far male, come un proiettile. Arrivano all’improvviso e ti cambiano la vita. Agosto 2004, Bari. Sono in pullman con i compagni, squilla il cellulare: 'Papà Almir è morto'. Ho pensato fosse un incubo. Ho sperato lo fosse. Non riesco a raccontarla, la disperazione di quel momento. Non ho mai provato in vita mia un dolore così grande, così insopportabile. Sono tornato a Milano di corsa, alla ricerca di un volo. Angoscia soffocante, mista alla coincidenza per Rio de Janeiro persa. E allora via, a Roma, e poi in Brasile". L'affetto del mondo Inter, da capitan Zanetti fino al presidente Moratti, è ancora vivo nella memoria di Adriano: "Ricordo ancora adesso gli abbracci dei compagni. L’Inter mi è stata molto vicina in uno dei momenti più difficili della mia vita. Moratti è stato come un padre per me. Non solo lui, ma anche Zanetti e le altre persone attorno a me. Sono molto grato a tutti, perché sono cose che mi porterò dentro per sempre".
Come si porterà per sempre dentro il coro a lui dedicato dai tifosi nerazzurri: "L’Inter è un pezzo di me davvero grande, che si è intrecciato con la mia vita, colorando i momenti più belli e accompagnandomi in quelli più tristi e difficili. Ma ancora oggi, quando penso a Milano, a San Siro, alla maglia nerazzurra, mi viene da cantare quella canzone che non mi toglierò mai dalla testa e che, ogni volta, mi faceva sentire felice, a casa, uno di voi, uno di noi: 'Che confusione, sarà perché tifiamo, un giocatore che tira bombe a mano, siam tutti in piedi per questo brasiliano, batti le mani, che in campo c'è ADRIANO!'. Forza Inter!”, conclude la lettera firmata da Adriano.