Da 16 anni non è più domenica, per dirla con una canzone di Cesare Cremonini. Il 16 maggio non è un giorno qualunque per il pallone italiano, che pure ne ha visti di personaggi e campioni. Quello forse più amato di tutti, Roberto Baggio, lascia il calcio proprio in questa data, nel 2004. E non può che farlo in uno dei palcoscenici più prestigiosi del mondo, San Siro, che gli tributa una lunga ed emozionante standing ovation.
La partita Milan-Brescia, valida per l'ultima giornata di campionato 2003-04, è sostanzialmente inutile: i rossoneri hanno festeggiato lo scudetto due settimane prima, le Rondinelle si sono salvate con largo margine. Si gioca dunque in un clima di festa ma con un velo di malinconia, perché esce di scena uno dei maggiori fuoriclasse italiani di ogni tempo, sicuramente il più iconico con quel codino che gli scende fino a coprire parte del numero 10.
Per la fredda cronaca, il Milan vince 4-2 con gol di Tomasson e reti di Shevchenko, Rui Costa e Kakà. Ma i tifosi rossoneri sembrano volere un gol di Baggio, al punto che ogni sua punizione è accompagnata dall'“Oooh” della curva. Una di queste colpisce il palo alla destra di Abbiati sul finire del primo tempo: sarebbe stato l'addio perfetto. Il 37enne Divin Codino trova comunque modo di incidere nel match e consegna l'assist per la doppietta di Matuzalem, prima che l'allenatore Gianni De Biasi gli regali la standing ovation del pubblico: San Siro si unisce nell'applauso e rappresenta quei milioni di tifosi che magari si sono emozionati davanti al televisore o alla radio.
È il minuto 84 di Milan-Brescia e Baggio lascia il calcio: ha gli occhi lucidi ma sa che è la scelta giusta per il suo fisico, con due ginocchia martoriate dagli infortuni sin dagli inizi della carriera. Un'altra leggenda come Paolo Maldini si fa metà campo per andare ad abbracciarlo e ringraziarlo, ma si defila subito, perché la passerella è tutta per il numero 10. Al Meazza, con le dovute differenze, si respira un'atmosfera paragonabile a quella del ritiro definitivo di Michael Jordan, avvenuto un anno prima, con tutto il pubblico di casa che in teoria dovrebbe tifare (o almeno guardare la partita) ma finisce per acclamare la stella avversaria, che nel frattempo viene abbracciato da tutti, compagni e avversari, persino da fotografi e addetti alla sicurezza. Chi si stupisce, pensi che Baggio ha vestito le maglie di Vicenza, Fiorentina, Juventus, Milan, Bologna, Inter e Brescia (onorandole con 278 gol in 604 presenze), ma l'unica a rappresentarlo veramente è stata quella azzurra dell'Italia.
Che sia una cavalcata di metà campo all'Olimpico durante le notti magiche o uno sguardo basso dopo un rigore sbagliato, che sia un golden goal sfiorato a casa dei francesi o la resurrezione individuale e collettiva in un Mondiale americano in cui l'Italia intera è appesa a un codino. È stato un fuoriclasse non robotico ma umano, con discese e risalite, sconfitte e vittorie. Infortuni, screzi con allenatori, zavorre senza le quali ci si chiede dove sarebbe potuto arrivare. Ma che lo hanno reso un amatissimo eroe nazionalpopolare. Baggio rappresenta tutti, è di tutti: e per tutti, da quel 16 maggio 2004, la domenica non è più stata la stessa.