Il 20 maggio 1912, 108 anni fa, nasceva a Trieste il figlio di una famiglia austriaca, cui era stato cambiato il nome durante il Ventennio. Quel bambino si chiamava Nereo Rocco. Un passato da discreto calciatore, ma è soprattutto nel ruolo di allenatore che passa alla storia del calcio italiano. Alla Triestina, ma soprattutto al Padova e al Milan che, con la sua guida, divenne la prima squadra italiana a vincere una Coppa dei Campioni. E che lo amò per la sua infinita umanità.
"Speremo de no". Fu, secondo la leggenda, la sua celebre risposta a un banale "Vinca il migliore" appena sentito da un giornalista. Che abbia davvero pronunciato questa frase o meno, poco cambia. Perché quando si parla di Nereo Rocco è quasi impossibile prescindere da questa battuta che da sempre gli viene attribuita e che inquadra in maniera genuina le sue anime: burbero, profondamente umano, immancabilmente sincero.
Rocco in realtà avrebbe potuto chiamarsi in almeno due modi diversi: Roch, come nonno Ludwig che era viennese e a cui il regime fece cambiare il nome nel 1925, o Rocchi, soluzione per la quale optò la famiglia non facendosi però capire da un disattento impiegato dell'anagrafe di Trieste. Quella Trieste a cui sarebbe rimasto sempre così profondamente legato, nonostante la sua carriera da allenatore fosse destinata a renderlo immortale presso tre altre città, società e tifoserie: quelle del Padova, del Torino e soprattutto del Milan.
Il piccolo Nereo nacque bechér, come il suo papà (ossia macellaio, in dialetto), e morì Paròn, traducibile come "Padrone". E padrone in un certo senso lo divenne, ma senza mai rubare la scena ai suoi ragazzi. Che lo temevano ma gli volevano anche un gran bene. Tanto da renderlo vittima dei terribili scherzi che poteva generare solo la spensieratezza di uno spogliatoio in quella fase in cui l'Italia passava dall'affanno del Dopoguerra al respiro profondo e corroborante del Boom economico. Uno di questi diabolici tiri mancini fu reso noto decenni dopo da José Altafini, che raccontò di essersi nascosto a lungo nell'armadietto del suo allenatore senza nessun indumento addosso: scoperto dal Paròn, si beccò un inevitabile uragano di urla e improperi in vernacolo (mentre il resto dei compagni non tratteneva le risate). Ripetuta la scenetta con l'algido Nils Liedholm, successore di Rocco, si vide rispondere in maniera glaciale: "Questo non è il tuo armadietto".
Pezzi di vita quotidiana che si sommano ai meriti sportivi di un allenatore e di un uomo che non amava mettersi in mostra ma che ebbe meriti enormi nella crescita del calcio anni '50 e '60. La sua epopea, però, è nata prima. E' stato lui l'artefice della più grande stagione della Triestina, la squadra della sua città portata al secondo posto nel campionato 1947-1948 (dopo un rocambolesco ripescaggio avvenuto l'anno prima). Per far fronte a una tecnica non raffinatissima della sua squadra introdusse in pianta stabile il libero e impostò il gioco in chiave molto difensiva. Il famoso "catenaccio" che però non fu una sua invenzione ma che Rocco mutuò dal "Verrou" inventato in Svizzera da Karl Rappan.
Che quello degli alabardati non fosse un exploit estemporaneo lo dimostrò un'altra grande impresa, quella che rese il Padova una big del calcio italiano anni '50: all'arrivo di Rocco, gli euganei erano una media forza della serie B. Quattro anni dopo chiudevano il campionato nella massima serie al terzo posto, alle spalle della Juventus fresca di stella e della formidabile Fiorentina di Fulvio Bernardini. "Una casa solida si costruisce dalle fondamenta", divenne una delle prime massime di Rocco a passare alla storia del calcio. E il suo gioco funzionava talmente bene da diventare ben presto addirittura il gioco "all'italiana" nell'immaginario collettivo (nonostante la presenza in squadra di attaccanti di livello assoluto come Hamrin e Brighenti). Il boom al Padova gli aprì le porte della Nazionale olimpica, a lui affidata nel 1960, ma Rocco dalla storia passò alla leggenda dicendo sì al Milan del direttore tecnico Gipo Viani nel 1961.
Già al primo anno arrivò lo scudetto, dopo una prodigiosa rimonta nel girone di ritorno (al giro di boa i rossoneri erano addirittura quarti). Una rimonta caratterizzata da Rocco, le sue idee e il suo carattere. Che spesso sfociava nel caratteraccio: ne sa qualcosa Jimmy Greaves, centravanti da 421 reti in 604 partite in carriera, che però già in autunno fu tagliato dal Paròn (peraltro con 8 gol segnati in 10 partite). Poco male, perché furono altri gli uomini fondamentali di quel Milan: Cesare Maldini, Gigi Radice, Sandro Salvadore, Giovanni Trapattoni, Mario David. In porta Giorgio Ghezzi, da oltre un decennio un monumento del suo ruolo. E poi in avanti Dino Sani, Pantera Danova, un giovanissimo Gianni Rivera. E Altafini, ovviamente.
Era quella l'ossatura del Milan che nel 1963 tentò l'assalto alla Coppa dei Campioni, mai vinta nella storia fuori dalla penisola iberica (le prime cinque edizioni al Real Madrid, poi due al Benfica). Ebbene, a Wembley fu proprio il Milan di Nereo Rocco a rompere l'incantesimo, con il Benfica del grande Eusebio piegato in rimonta da due gol dell'immancabile Altafini. Impresa poi bissata nel 1969, contro un nuovo avversario che lui per ultimo riuscì davvero a limitare: era l'Ajax che già vantava Rinus Michels in panchina e Johan Cruijff in campo: a Madrid i Lancieri, dominatori del successivo quinquennio, persero 4-1. Tre gol di Pierino Prati, uno di Sormani e il gol della bandiera concesso solo su rigore.
I profeti del calcio annientati dal supposto promotore del Ciapanò. Uno dei tanti equivoci di Nereo Rocco, l'uomo che divenne il simbolo del calcio all'italiana. E che sperava non fosse il migliore a vincere. Ma che alla fine, il migliore, nei suoi anni lo è stato per davvero.