Pallotta, poche luci e tante ombre

Dopo nove anni di passione termina l'esperienza romana del finanziere di Boston

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Pallotta ha ceduto. Per quelli della mia generazione, orfani di Franco Sensi, cresciuti tra gli orfani di Dino Viola, la questione di chi, e a quale fine, decida di detenere la proprietà della Roma non è banale. La squadra è vittima di una continua attività di destabilizzazione da parte dei media, della politica e di alcuni potentati economici della capitale. Così per anni la chimera di un passaggio di proprietà, l’erotismo per un magnate, i rumor di un fondo russo o la speranza di un arabo hanno esposto la Roma a imbarazzi e umiliazioni.

Il Godot del romanismo, vivere nelle perenne attesa di uscire dalla prigionia del sogno, come diceva Viola. E non possiamo elencare tutti gli episodi grotteschi che si affastellano negli anni duemila giallorossi. Un vociare continuo di radio romane, di ‘ha firmato’, di cugini che lavorano all’aeroporto, di sedicenti intermediari emiratini, di tycoon col culo degli altri, di sceicchi umbri (sic!), di questo c’ha i sordi pe davero. Tutte fandonie, buone solo a far istruire una procedura Consob o una notizia di reato di aggiotaggio. E così pareva l’inizio dell’Era Pallotta. Quando sbarca a Roma il primo zio d’America, Thomas Di Benedetto, la minaccia di una farsa è concreta.

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