Sei anni fa, unici precedenti di due destini già all’epoca opposti, Guardiola e Garcia si lasciarono con i nove gol complessivi architettati e poi guidati in panchina dal primo - l’ennesimo 7-1 della storia della Roma seguito dal 2-0 del ritorno - una sola rete di consolazione, appunto, ed un’onesta performance a Monaco, per il secondo. Erano i tempi del Bayern di Herr Pep e della polemica del guru della Lupa verso la Juve a suon di violino. Oggi le distanze che separano Guardiola da Garcia sono le medesime - per pedigree ed ambizioni di Manchester City e Lione - ma indubbiamente la residua quota di imponderabile della prima delle possibili tre finali verso la coppa, solletica il fato.
Pep, consueto suadente traduttore simultaneo, appare persino più severo del solito, come a voler scuotere un City cullato dalla brezza di Cascais nella sua dolce reclusione. Rudi, da parte sua, sa che la chiesa destinata ad essere rimessa al centro del villaggio non è quella del Lione, ma con la forza della coesione sogna un secondo, clamoroso, exploit.
Lui sa come si fa: nell’annunciato gran ballo dei debuttanti - Flick, Tuchel, Nagelsmann - Guardiola è l’unico a poter compiere questa speciale, interiore, ricerca del tempo perduto. Due le Champions vinte col Barça, prima da predestinato poi da teologo del calcio contemporaneo. Ma mai neanche sfiorata col City. E qui la pressione sarà tutta da una parte: a Manchester si griderebbe al fallimento, a Lione tante pacche sulla spalla ed un senso di generale gratitudine.