QUATTROTRETRE

Champions e Lisbona, storia di una finale senza città

Poco entusiasmo, zero tifosi di Bayern e PSG: una partita decisiva, ma senza alcuna atmosfera

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I teloni sono stati apposti all’interno, sugli spalti a favore di telecamera: loghi e colori, per non dare il senso del vuoto. Funziona poco, ma funziona. Fuori, la caratterizzazione del Da Luz per la finale è sostanzialmente inesistente; tre bandiere dell’Uefa a sventolare all’ingresso, zero fronzoli, completa assenza dei marchi di Paris Saint-Germain e Bayern Monaco e dalla finale stessa. Ma è nella segnaletica verticale che conduce alle tribune, anch’essa ridotta all’osso, che la situazione si staglia in tutta la sua singolarità: Team’s seats, gate 1. Per il settore riservato ai membri delle squadre, si entra dall’ingresso numero 1. Rileggetelo.

Rifletteteci. Quest’anno va così. Più che la città della finale, è una finale senza città. Un contrasto stridente, ma la realtà della Champions League non sempre ha i toni dell’epica: in questo agosto calcisticamente insensato e marchiato da contagio, paura e misure di sicurezza per contenere la pandemia, pare più che altro un manuale di istruzioni su come portare a termine un compito. È un foglietto dell’Ikea, Lisbona che aspetta la finale della Champions League più tormentata della storia: pochi disegni intuitivi e una brugola, altro non c’è, tanto basta anche perché comunque non era poi così semplice. Lisbona, a tutti gli effetti, la finale di Champions non la sta aspettando. Nemmeno doveva essere sua, ma di Istanbul. Poi tutto è cambiato.