La generazione Cobra Kai e il significato di pietà e onore

Non esistono arti marziali buone o cattive, esistono solo persone che vivono come viene loro insegnato.

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Ho iniziato a guardare Cobra Kai lo stesso giorno in cui è stata data la notizia della morte di Willy, nelle stesse ore in cui decine di voci giornalistiche si sollevavano contro la violenza di alcune scuole di arti marziali. Con la stessa solerzia, federazioni annunciavano di aver radiato dai propri albi i presunti responsabili mentre istruttori, palestre, gruppi, maestri, si affollavano come i mercanti al tempio per raccontare che quello che è successo a Colleferro non ha niente a che fare con le arti marziali.

Quelli erano Cobra Kai, bulli di provincia sedotti da un modello di potere e di vita che ha solo il sapore dell’illusione. Per questo vedere di nuovo Johnny e Daniel sullo schermo, quarant’anni più tardi e in quelle stesse ore, ha avuto il sapore di una strana epifania. Perché chiunque ha mai calcato un tatami, o un ring, o una gabbia, grattugiandoci sopra un pezzetto della propria carne, è stato un po’ Johnny e un po’ Daniel.

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