Non deve certamente sfuggire all’intelligenza di un atleta di calibro internazionale l’ironia legata ad alcune circostanze di vita che la dedizione totale a una causa impone. La rincorsa all’apice di qualsiasi professione è costellata infatti da contrasti apparentemente insondabili, o il cui superamento può richiedere l’adozione di punti di vista e scelte che esulano dagli schemi convenzionali. Così è per la rivista che ospita questo articolo, che ha fatto dell’animo battagliero del nome che porta più di una semplice linea editoriale. E così è stato anche per Jury Chechi, ginnasta specializzato negli anelli e tra i maggiori rappresentanti dello sport italiano.
C’è da subito una contrapposizione nella biografia di Chechi, quando il padre — che, insieme alla madre, sarà una figura positiva fondamentale — lo esorta a dedicarsi al ciclismo e al pugilato, perché la ginnastica è considerata “uno sport da donne”. Non c’era in quell’opinione la malizia che spesso ancora infesta troppi commenti: all’epoca la ginnastica era stata effettivamente resa popolare dalle imprese femminili, fra tutte quelle di Nadia Comăneci, la cui perfezione esecutiva rimane a tutt’oggi un riferimento assoluto. Ammaliato dalla stimolazione sensoriale del primo incontro con la palestra, Chechi non solo decide che quella è la passione da inseguire e difendere, ma si fa strada negli anelli, proprio una disciplina che non prevede gare ufficiali tra donne (esercizi e tecniche della ginnastica maschile si differenziano da quelli femminili in misura più significativa che in altri sport).