Ruben Anibal Giacobetti non è entrato e non entrerà mai nella storia del calcio. Per fortuna, una lontana domenica datata 20 ottobre del 1976, Ruben Anibal Giacobetti esce dal campo. O meglio, non vi rientra più all’inizio del secondo tempo di un’anonima partita del campeonato Metropolitano (la Serie A argentina del tempo): lascia infatti il posto a un ragazzino di appena 15 anni (ne avrebbe compiuti 16 dieci giorni dopo) di nome Diego Armando Maradona. La squadra di Giacobetti (e di Maradona), l’Argentinos Juniors, sta perdendo in casa 0-1 contro il Talleres di Cordoba, una provinciale del calcio argentino. Prende 4 in pagella quel giorno, Giacobetti: una stroncatura feroce da parte di Hector Vega Onesime, inviato del prestigioso settimanale El Grafico, che appioppa invece un bel 7 al subentrante di nome Maradona. Lunghi capelli ricci, occhi vispi, maglia rossa con banda trasversale bianca, numero 16 ben visibile anche sui calzoncini: così si presenta quel giorno il piccolo Diego, stellina dell’Argentinos Juniors pronto a entrare nella storia. Un ragazzino sfacciato al punto da trasformare la prima palla toccata in un irridente tunnel ai danni del suo marcatore Juan Domingo Cabrera, un onesto mestierante del centrocampo.
Dieguito allora era già Pibe de oro: a dispetto della giovanissima età giornali e televisioni si erano occupati più volte di lui che nell’intervallo delle partite dell’Argentinos intratteneva gli spettatori con palleggi da foca. Nel settembre del ’71, a 11 anni ancora da compiere, il Clarin, il quotidiano più venduto d’Argentina, gli aveva dedicato un articoletto con però un clamoroso refuso nel titolo: Caradona invece di Maradona. Anche la tv, dicevamo, si era occupata di lui: Sabados Circulares, un programma della televisione di stato Atc condotto da Pipo Mancera (il Pippo Baudo d’Argentina) lo aveva ritratto mentre palleggiava davanti alla sua modesta casa nel quartiere di Villa Fiorito. “Mi sueño… mi sueño es jugar en el Mundial. Y ganarlo…”, diceva con gli occhi bassi il bimbo tra una magia con quel sinistro fatato e un gioco di prestigio tra spalla e testa. Il sogno di giocare un Mondiale Dieguito lo avrebbe sfiorato sette anni dopo e realizzato undici anni dopo, nel 1982. Per vincerlo ci sarebbero voluti altri quattro anni di attesa prima del trionfo dell’Azteca del 29 giugno 1986, a quindici anni da quelle immagini così incredibilmente premonitrici.
Il piccolo Maradona – torniamo all’anno di grazia 1976 – brucia le tappe. A meno di un mese dall’esordio ecco il 14 novembre il primo gol in A, anzi, una doppietta: teatro, il piccolo stadio (oggi scomparso) General San Martin di Mar del Plata, la Rimini d’Argentina nel successo per 5-2 dell’Argentinos contro il locale San Lorenzo. Per la cronaca e per la storia, il portiere che subisce i primi gol “veri” di Dieguito si chiama Ruben Alberto Lucangioli. Mai nessuno ha più rivisto quei gol di cui mancano le immagini televisive. Colpa di un operatore un po’ paraculo che se ne andò nell’intervallo, contento e soddisfatto per aver ripreso le due reti del primo tempo, una per squadra.
Il 27 febbraio 1977, a quasi 16 anni e 4 mesi, arriva il debutto nella Seleccion. Palcoscenico prestigioso la Bombonera, lo stadio del Boca. Maglia numero 19. L’Argentina sta vincendo facile contro l’Ungheria in una delle tante amichevoli pre Mondiali. Il commissario tecnico Cesar Luis Menotti lo butta dentro al posto di Luque, quel centravanti baffuto che di lì a un anno e qualche mese si sarebbe laureato campione del mondo. Entra sul 4-1, giusto in tempo per offrire a Houseman l’assist del pokerissimo che chiude la partita.
Quel giorno comincia la lunga rincorsa di Dieguito a un posto tra i magnifici 22 che avrebbero disputato il Mundial. Ma il 19 maggio 1978 Menotti gli infligge la delusione forse più grande di tutta la carriera: dei 25 convocati per il lungo ritiro premondiale rimangono fuori in tre: Bottaniz, Bravo e Maradona, in rigoroso ordine alfabetico. Il difensore Victori Bottaniz (classe 1953) e il centravanti Humberto Bravo (classe 1951) usciranno presto dai radar senza mai più rientrare nel giro della Nazionale. La storia di Maradona sarà leggermente diversa… Due giorni dopo la ferale notizia, Diego segna due gol e serve due assist nel 5-0 che l’Argentinos rifila al Chacarita. Il capitano avversario, Hugo Peña, a fine partita lo prende sottobraccio e gli sussurra in un orecchio: “Tranquillo ragazzo, tu giocherai molti Mondiali e chiuderai la bocca a tutti". Mai vaticinio fu più azzeccato.
Il ragazzino dei debutti precoci nel frattempo si è impossessato della maglia numero 10 dell’Argentinos Juniors. Non vive più nella “villa miseria” (l’equivalente delle favelas brasiliane) di Fiorito, non va più ad allenarsi in autobus ma si muove sulla sua Fiat 125 e la sua autoradio suona a palla le canzoni di Nicola Di Bari e Raffaella Carrà, le sue preferite. Con il tempo, miglioreranno anche i gusti musicali… La famiglia Maradona comincia a diventare popolare tra servizi fotografici esclusivi e reportage televisivi. Papà Diego detto Chitoro, mamma Dalma Salvadora detta Tota. E i tanti fratelli, otto: nell’ordine Ana e Rita, poi Elsa e Maria. Quindi Diego Armando, il primo maschietto. E poi ancora Raul detto Lalo, Hugo detto El Turco e Claudia. Fosse nato una ventina di anni dopo, probabilmente Maradona sarebbe riuscito a strappare un passaporto comunitario visto che la nonna materna, Salvadora Cariolochi, aveva origini calabresi.
Archiviata la delusione per quel Mundial sfumato sul più bello, ecco arrivare per Diego un 1979 da incorniciare. A gennaio la prima copertina de El Grafico. Il 2 giugno a Glasgow il primo gol con la Seleccion dei grandi (vittoria 3-1 in amichevole sulla Scozia). Il 7 settembre a Tokyo il trionfo nel Mondiale under 20 con l’Argentina che in finale batte 3-1 l’Unione Sovietica dopo aver vinto anche le cinque precedenti partite contro Indonesia, Jugoslavia, Polonia, Algeria e Uruguay. Diego naturalmente indossa la maglia albiceleste numero 10 e ha al braccio sinistro la fascia di capitano. Un’immagine che rivedremo meno di sette anni dopo in Messico nel Mondiale “vero”. In quello giovanile comunque Maradona è in buona compagnia: altri quattro giocatori arriveranno a giocare un Mondiale dei grandi (Ramon Diaz, Barbas, Calderon e Simon).
In quell’anno Diego mette piede per la prima volta in Italia: Roma, 26 maggio, l’Argentina campione del mondo in carica pareggia 2-2 contro gli azzurri di Bearzot. Non c’è Mario Kempes, l’eroe del trionfo mundialista, e Diego sbuca così dal tunnel dell’Olimpico con la camiseta numero 10. Gioca 90 minuti, non segna (lo marca e lo mena un certo Marco Tardelli) ma lascia tutti a bocca aperta. Da noi le frontiere sono ancora chiuse dal 1966, anno del naufragio coreano dell’Italia di Mondino Fabbri al Mondiale d’Inghilterra, ma le pressioni dei grandi club per riaprirle sono forti. Il Napoli (attraverso l’allenatore Gianni Di Marzio in viaggio… di aggiornamento professionale) e la Juventus (dietro suggerimento del suo “ambasciatore” argentino Omar Sivori) provano a sondare il terreno. I contatti con il procuratore di origini ebree Jorge Cyterszpiler, vicino di casa e amico di Diego, non sfociano in trattative concrete. E poi c’è una legge del governo militare argentino che vieta l’emigrazione dei giovani calciatori “d’interesse nazionale” fino al 1982.
E così il primo trasferimento nella carriera di Maradona è quello che lo porta, a inizio 1981, a vestire la maglietta “azul y oro” del Boca Juniors. Lui si confessa tifoso fanatico del “equipo xeneize” anche se in una delle prime interviste rilasciate ai media argentini aveva confessato in realtà di tifare Independiente e di avere il Bocha (Ricardo Enrique Bochini) come idolo. Con il Boca centra subito lo scudetto conquistando il Metropolitano ’81, primo titolo di squadra di club dopo che per cinque volte aveva vinto con l’Argentinos Juniors la classifica dei cannonieri. L’avventura al Boca però dura lo spazio di un anno. Il club non riesce a far fronte ai debiti per l’acquisto del cartellino dall’Argentinos e così il 2 giugno 1982, alla vigilia del Mondiale di Spagna, si ufficializza la sua cessione dal Boca al Barcellona per la cifra record di 8.200.000 dollari (di cui 5.900.000 all’Argentinos e 2.300.000 al Boca) più 5 milioni e mezzo di dollari d’ingaggio a Maradona che firma un contratto di sei stagioni. Quel contratto non sarà onorato fino in fondo. Dopo due stagioni poco fortunate (tre mesi fuori nel 1982-83 per epatite; 106 giorni di stop nel 1983-84 causa entrata killer del difensore dell’Athletic Bilbao Andoni Goikoetxea che gli spappola la caviglia sinistra) ecco l’acquisto più incredibile dell’italico calciomercato: Maradona al Napoli.
A questo punto però s’impone il flashback. Eravamo rimasti al 1982, anno del primo Mondiale di Dieguito. In Spagna è la stella più attesa ma l’esperienza comincia male e finisce peggio. Nella partita inaugurale al Nou Camp l’Argentina è sconfitta dal Belgio. Una volta superato lo scoglio del primo girone, nella seconda fase a mini-gruppi all’Argentina toccano Italia e Brasile. Al Sarrià, il secondo stadio di Barcellona che oggi non esiste più, contro gli azzurri Maradona, stavolta marcato (e picchiato) da Gentile, si vede poco e niente e l’Italia batte 2-1 la Seleccion cominciando il suo cammino trionfale verso la notte magica del Bernabeu. L’Argentina perde poi anche contro il Brasile: il 3-1 ne sancisce l’eliminazione, un calcione volontario nelle parti basse del futuro laziale Batista costa a Dieguito la sua unica espulsione in un Mondiale.
Maradona al Napoli, dicevamo. E subito una data, un’altra, da ricordare: 5 luglio 1984, 60 mila tifosi (paganti) al San Paolo in delirio nel giorno della sua presentazione. Il felice blitz del direttore sportivo Antonio Juliano detto Totonno (gloria, regista e capitano del Napoli anni Sessanta e Settanta) permette di strappare Maradona al Barcellona complice anche il pessimo rapporto tra il Pibe de oro e il presidente catalano Josè Luis Nunez: 13 miliardi di lire il costo del cartellino più 800 mila dollari all’anno al giocatore per cinque stagioni più vari benefit. L’avventura italiana comincia il 22 agosto del 1984 con un gol in Coppa Italia al San Paolo contro l’Arezzo (un po’ di gloria anche per Pellicanò, primo portiere italiano a incassare un Mara-gol). Il debutto in campionato però riserva un mesetto dopo la delusione di una sconfitta per 3-1 al Bentegodi contro quel Verona che a fine stagione festeggerà tra la sorpresa generale lo scudetto.
I primi due anni (con allenatori Rino Marchesi nel 1984-85 e Ottavio Bianchi nel 1985-86) sono per così dire di ambientamento. Numeri, gol e applausi non mancano ma la modestia della squadra impedisce di lottare per i primi posti. Diego trova così soddisfazione con la sua amata Seleccion: il nuovo commissario tecnico Carlos Salvador Bilardo gli consegna la fascia di capitano degradando sul campo Daniel Passarella, leader del Mundial ’78. E dopo il sofferto cammino di qualificazione, Mexico ’86 laurea l’Argentina di Maradona campione del mondo. Decisivo il geniale assist a Burruchaga per il 3-2 della finale contro la Germania Ovest, ma quel Mondiale sarà ricordato per sempre per il gol più truffaldino e per quello più spettacolare nella storia del calcio. Entrambi di sinistro, entrambi contro l’Inghilterra. Il primo con un colpo di pugno (“la mano de Dios”, dirà lui…), il secondo con un tocco mancino al termine di uno slalom di 60 metri semplicemente stratosferico con Reid, Beardsley, Hodge, Butcher e Shilton saltati come birilli.
La stagione successiva (1986-87) Dieguito riesce nell’impresa di regalare al Napoli il suo primo storico scudetto con il contorno della Coppa Italia. Per altre quattro annate, con e grazie a Maradona, il Napoli sarà squadra di vertice in Italia e in Europa capace di vincere ancora uno scudetto (1989-90), una Supercoppa italiana (1990) e una Coppa Uefa (1989). Maradona lascia Napoli e l’Italia l’1 aprile del 1991, fatale il doping alla cocaina (17 marzo, dopo Napoli-Bari 1-0) che gli costa 15 mesi di stop. “E’ un complotto”, urla al mondo, giustificandolo con la presunta rabbia dei dirigenti della Federcalcio italiana per quell’eliminazione degli azzurri nella semifinale del Mondiale ’90 giocata proprio nel “suo” San Paolo e persa dall’Italia ai rigori. E’ il 3 luglio 1990. Un rigore deciderà poi cinque giorni dopo anche la finale dell’Olimpico vinta dalla Germania nella serata dei fischi all’inno e del “hijos de puta” rivolto platealmente alle telecamere dal capitano argentino.
Il Maradona immenso finisce proprio con la sua partenza dall’Italia. Giocherà ancora (Siviglia, Newell’s Old Boys, l’amato Boca Juniors), farà ancora un Mondiale (nel ’94 partenza a razzo e triste abbandono per doping proprio alla vigilia della seconda fase) regalando sprazzi di grande calcio e altri guizzi da numero uno dei numeri 10. Da quel 20 ottobre 1976 giorno del suo esordio al 25 ottobre 1997, data dell’ultima partita ufficiale (con la maglia dell’amato Boca Juniors in un “superclasico” contro il River Plate vinto 2-1), Diego Maradona ha vinto di tutto e di più: un Mondiale dei grandi e uno dei giovani, tre scudetti (uno con il Boca, due con il Napoli), una coppa Uefa, due coppe e due supercoppe nazionali (doppietta con il Barcellona e con il Napoli), sei volte la classifica cannonieri (cinque in Argentina e una in Italia). In casa ha pure un Pallone d’oro di France Football alla carriera, consegnatogli nel ‘95. Unico cruccio, la Coppa dei Campioni. Quella sudamericana, la Libertadores, non l’ha mai neppure giocata. Quella europea, che da un po’ chiamiamo Champions League, l’ha visto fuori al primo turno con il Napoli contro un Real Madrid non ancora galattico ma già forte dei Butragueno, Michel e Martin Vazquez.
Una carriera forse irripetibile quella per il fresco 60enne Maradona che lascia dietro anche un rimpianto: senza l’abbraccio fatale della cocaina forse Diego sarebbe stato ancora più grande…