Il Rudy’s Café è all’angolo tra la 111esima Strada e Lenox Avenue. Quartiere di Harlem, New York, fine anni ’40. Un posto in cui è sempre meglio tenere gli occhi aperti. Si mangia spagnolo, da Rudy’s. Joe Gaetjens, detto Larry, lavora lì. Fa il lavapiatti in cucina. Tutto il giorno tra il viavai forsennato dei camerieri, qualche urlo del padrone (Eugene Diaz, detto Rudy) e i vapori dei fornelli.
Joe viene da Haiti: terra bella ma disperata, da dove spesso si fugge per sperare di star meglio. La sua famiglia, però, non è povera, tutt’altro. Il bisnonno era stato addirittura un emissario d’affari del re di Prussia; il papà di Joe, Edmond, di origini tedesche, lavora come commerciante; la mamma Antonine “Toto” Defay è casalinga.
Joe, classe 1924, è il terzo figlio della coppia. A metà degli anni ’40 i Gaetjens si sono trasferiti negli Usa. Ragazzo serio, Joe, con la testa sulle spalle: a New York studia ragioneria alla Columbia University grazie a una borsa di studio, il lavoro al Rudy’s Café gli serve per mantenersi e nel tempo libero coltiva la sua passione: il calcio. A New York gioca da centravanti nell’American Soccer League con la squadra del Brookhattan (il nome viene dai quartieri di Brooklyn e Manhattan) e i suoi gol gli sono valsi anche un titolo di capocannoniere. E’ lì che gli osservatori della USSF, la Federazione calcistica nazionale, lo adocchiano all’inizio del 1950, pochi mesi prima del Mondiale brasiliano, e il suo nome finisce sul taccuino del ct Bill Jeffrey.