Il documentario Gascoigne (2015) di Jane Preston è come un buon vino e, come tale, ha bisogno di riposare. Deve decantare perché berlo tutto in un sorso significherebbe non riuscirne ad assaporare quel retrogusto amaro che rimane sul palato e che, una volta posato il bicchiere, scende giù dritto al cuore, senza passare per il cervello. Questo perché il Gascoigne presentato da Preston non è annacquato ma puro e avvolgente e lascia un senso di profonda tristezza che riempie lo spettatore. Questa recensione-articolo vuole, pertanto, essere un decanter per dare la possibilità di coglierne appieno il gusto amaro.
"Non vi aspettate di vedere un documentario sul mito di Gazza perché qui non si parla di calcio. Non vi aspettate tanto meno di vedere qualcosa che vi piace, perché se siete abituati a biopic esaltanti e motivazionali qui non troverete nessun buon sentimento"
Raccontare un uomo e un giocatore come Paul Gascoigne è compito arduo. Raccontarlo senza cadere nel pietismo dell’eroe mancato o nell’esaltazione dell’eterna promessa dribblando la facile Gazzamania diventa ancora più arduo. Per questo ciò che colpisce fin da subito di “Gascoigne è la regia”. Una regia femminile – quella della regista e giornalista Jane Preston – che offre una visione di genere alquanto unica ma che, allo stesso tempo, fa vacillare il tifoso di genere maschile nel suo credo più importante: l’eroicità.