Erasmo Iacovone non è un martire, nessuno lo considera tale a Taranto. La sua presenza però è tutt’oggi visibile, tangibile. Un ricordo scolpito non solo nelle memorie dei tifosi ma dell’intera città, che ne fa un vanto: un simbolo in un territorio oggi sfortunato, ma che un tempo sognava di recitare nel più importante palcoscenico del calcio italiano, la massima serie. La storia di Iacovone è la storia di Taranto, in un legame inscindibile. Due elementi che si trovarono per caso, si rincorsero intensamente, danzarono tra gli odori acri dei fumogeni in curva e, quando tutto sembrò idilliaco, si abbandonarono; materialmente distanti ed emotivamente vicini, la fede per la squadra non si slegò mai dal ricordo del suo profeta.
I rossoblu, come tante altre provinciali in quegli anni, coltivavano grandi ambizioni. I presupposti vi erano tutti nella stagione 1977-78, in una serie cadetta entusiasmante che proprio in quel decennio raggiunse il massimo splendore. Il calcio di allora era completamente diverso da quello odierno: allo spettacolo sul terreno di gioco si affiancava quello sugli spalti, generando un binomio coreograficamente perfetto. Non c’era ancora, quantomeno in Italia, quell’ossessione tattica che condizionerà il calcio moderno. Le compagini mostravano una spiccata propensione difensiva, con quasi tutta la squadra che si faceva carico delle bagarre in mezzo al campo, per poi servire il terminale offensivo a cui era affidato il solo compito del gol.