Un giorno chiesi ad un caro amico di Napoli, frequentatore assiduo del San Paolo, perché la tifoseria ce l’avesse tanto con De Laurentiis. In fondo ADL li aveva ripresi dai bassifondi del calcio italiano, portandoli addirittura in Europa prima e a competere per lo scudetto poi (nel mezzo, qualche non indifferente trofeo come tre Coppe Italia e una Supercoppa italiana). La sua risposta fu però emblematica. Tradotta in termini semplicistici, il succo era più o meno questo: lascia stare i risultati, quello vuole comandare il Napoli come un’azienda ma non ha capito qui come funziona; il Napoli non è un’azienda, nemmeno se di successo, e lui neanche è napoletano. E poi, in soldoni, ha una faccia da schiaffi.
Notai subito di aver toccato un nervo scoperto, e la sua risposta era evasiva e confusa come quella di una ragazza arrabbiata che dice di non avere niente. La verità è che tra Napoli e De Laurentiis non è mai sbocciato l’amore, a pelle e allo stesso tempo per mille motivi, in una città che ancora respinge di cuore certe perversioni della contemporaneità. De Laurentiis è in fondo un imprenditore che mai ha ceduto alla retorica napoletana, a quella mistica impareggiabile che può diventare nel bene stra-ordinaria epica di popolo, nel male sindrome paranoide da vittimismo.