Giampiero Marini compie 70 anni. Banale dire che non li dimostra, ma in questo caso è proprio vero. Si è allontanato dal calcio, si dedica alle sue attività e ai suoi investimenti, ma ha ancora l'entusiasmo di 50 anni fa. Da giocatore ha vinto uno scudetto e un Mundial, da allenatore una Coppa Uefa. Ma quello che lo caratterizza da sempre è quella carica umana unica e inimitabile che mette in tutto quello che fa.
Chissà quanti giocatori nella loro carriera si sono sentiti dire dal proprio allenatore una frase tipo “la Coppa è già in bacheca” con una doppia semifinale e una doppia finale ancora da giocare. Eppure è successo. Lo spogliatoio era quello della Pinetina di Appiano Gentile, la stagione 1993-94. L’Inter aveva appena compiuto un’impresa ai limiti dell’ìncredibile, buttando fuori l’emergente Borussia Dortmund nei quarti di finale di quella che si chiamava Coppa Uefa. Giampiero Marini era l’allenatore capace di pronunciare quella profezia che poi si sarebbe clamorosamente avverata, con la semifinale passata contro il Cagliari e la doppia finale contro il Salisburgo chiusa con un doppio 1-0 per i nerazzurri grazie soprattutto ai miracoli messi in scena da Walter Zenga a San Siro.
È stata quella l’unica vera grande esperienza di Marini da allenatore. Prese il posto di Osvaldo Bagnoli a metà stagione, penultimo anno della gestione di Ernesto Pellegrini. Arrivava dalla Primavera nerazzurra ed ereditò un gruppo pieno di contraddizioni (il dualismo Bergkamp-Sosa su tutti) e tormentato dagli infortuni. Vinse quella Coppa Uefa contro tutto e contro tutti, ma in campionato fu un mezzo disastro, con l’Inter salva aritmeticamente all’ultimo respiro della stagione. Da allora, Marini si è accontentato di un paio di esperienze al Como e di una alla Cremonese, più qualche apparizione sulla panchina dell’Under 21 di serie B.
Il calcio gli è rimasto dentro, ma negli ultimi vent’anni ha fatto altro. Si è occupato di Borsa e di investimenti immobiliari. Non ha mai pensato di fare l’opinionista perché non è nelle sue corde. Guarda partite e ne parla, ma con gli amici. Forse è troppo pane al pane e vino al vino per fare il mestiere di allenatore. È sempre stato abituato a dire tutto in faccia con grande schiettezza, soprattutto ai giocatori. Il rapporto umano per lui è fondamentale e in quella breve esperienza alla guida dell’Inter lo ha dimostrato ampiamente. Succedeva – spesso – che alla Pinetina dopo pranzo, appena i giocatori erano corsi verso casa, chiamasse i due-tre amici giornalisti nella sala da pranzo della squadra. Non erano interviste ma sfoghi. Un giorno era avvelenato con il giocatore che gli dava più grattacapi: “Ragazzi, ieri ho parlato due ore con Bergkamp e mi avete capito di più voi che non eravate lì”. Con il soggetto in questione non trovava soluzioni, non sapeva proprio come uscirne.
Giocatore esemplare, questo sì. Non ricorda di aver mai detto nella vita la frase “Oggi non ho voglia”. Che si trattasse di un semplicissimo allenamento o della finale del Mondiale, il lavoro di calciatore è sempre stato la priorità della sua giornata e della sua vita. Proprio grazie a questa voglia immensa è riuscito e entrare nel grande calcio a scapito di una dose di talento tutt’altro che abbondante. La determinazione è sempre stata la forza motrice della sua carriera, cominciata nel Fanfulla (la squadra di Lodi, sua città natale) e decollata con la maglia del Varese dopo una stagione passata in prestito tra Reggina e Triestina. Nel 1975 il passaggio all’Inter, che però lo prese come corredo a un acquisto che sembrava straordinario, quello dell’attaccante Giacomino Libera poi rivelatosi un flop. Proprio con la maglia nerazzurra sono arrivati i suoi trofei: uno scudetto (1979-80) e due Coppe Italia (1977-78 e 1981-82). Nel 1986 l’addio al calcio giocato, colpa degli infortuni a ripetizione, al termine di 375 partite e 13 gol in serie A con la maglia nerazzurra.
In mezzo a tutto questo c’è stata anche la meravigliosa avventura della Nazionale. È un uomo vero e proprio per questo Bearzot aveva una stima infinita di lui. Un giorno di fine ottobre 1980 arrivò la prima convocazione che Marini salutò così: “Se io vado in Nazionale vuol dire che la classe operaia può andare in Paradiso”. Nel paradiso calcistico ci è andato per davvero, vincendo il Mundial 1982, 5 presenze tra cui la mitica partita contro il Brasile e la semifinale contro la Polonia. Niente finale, ma va benissimo così.
Uomo-spogliatoio per eccellenza, per l’esempio che ha sempre dato come calciatore, per la sua fraterna capacità di richiamare i lavativi, per la pacatezza delle sue dichiarazioni. Ma anche per la coinvolgente carica umana che ha sempre dimostrato. Nel privato dei ritiri è sempre stato un trascinatore, organizzatore di scherzi sani e mai sopra le righe, talentuoso nello strimpellare la chitarra cantandoci sopra le canzoni dei grandi cantautori italiani.
Ha avuto diversi soprannomi e diversi ne ha inventati. Da giocatore per i compagni era "il pirata" o più velocemente “Malik”. Per qualche giornalista era “Pinna d’oro” perché dava la sensazione di avere dei piedoni sproporzionati rispetto al resto del corpo. A un certo punto è diventato “la coscienza dell’Inter” proprio per quel suo rappresentare la tradizione all’interno di uno spogliatoio che cominciava a prendere l’abitudine di cambiare un po’ troppo spesso occupanti. Tra i soprannomi inventati, il più divertente è sicuramente quello affibbiato a Bergomi: “Zio”. Nella stagione 1980-81. Bersellini annunciò alla squadra che si sarebbe aggregato un ragazzo della Primavera. Entrò appunto Bergomi, con i suoi baffoni e il suo fisico già abbondantemente formato. Marini gli chiese quanti anni avesse davvero e alla risposta “diciassette” gli rise in faccia: “Alla faccia dei diciassette anni, mi sembri mio zio”. E Zio è rimasto per sempre.
Raccontare un grande personaggio come Giampiero Marini in poco spazio è un po’ pretenzioso, la sua carriera è una miniera di aneddoti, però visto che compie 70 anni e che ha ancora la forza di quando era ragazzo unita a un sorriso e a una leggerezza che fanno invidia, chi non l’ha mai visto giocare può farsi un’idea. E noi possiamo augurargli buon compleanno e buon tutto.