Diciamolo chiaramente: il tifoso medio americano è il peggiore dell’universo. Atavicamente affamato di cibo spazzatura, pronto a pomiciare se inquadrato sul maxischermo e voglioso di ballare quando il faro gli concede quindici secondi di fama, sembra recarsi alla partita per sfogare i più bassi istinti della specie umana. NBA, NFL o MLB, sugli spalti la morale è la stessa. Nessuna celebrazione del rito, lo sport è denigrato ad intrattenimento, il wrestling insegna. Pensare a come gli Yankees vivono le manifestazioni sportive fa venire i brividi a noi Europei, tanto più se le dirigenze nostrane ammiccano a quel sistema.
Eppure, da un po’ di tempo a questa parte, nella crescita del seguito della Major League Soccer sembra trovare spazio una nuova figura di fan-atico, che apparentemente smentisce la stereotipica ma fedele descrizione di cui sopra. È il tifoso organizzato. Proprio quel retaggio dell’attivismo giovanile novecentesco, di cui il calcio postmoderno vorrebbe sbarazzarsi volentieri, si sta facendo largo negli stadi del pallone a stelle strisce.