Alan Shearer ha due espressioni, un po’ come, secondo Sergio Leone, due ne aveva Clint Eastwood: con e senza cappello quest’ultimo, con la mano aperta o solo con il dito indice in alto il primo. È stato così da quando abbiamo iniziato a conoscerlo, alla tv o allo stadio; un’immagine di esultanza, sempre la stessa: di corsa, col busto sgraziatamente proteso in avanti e il braccio destro alzato. Poco scenografica e sufficientemente minimalista in un periodo – gli anni Novanta – di festeggiamenti caratterizzati da un formidabile sprezzo del ridicolo, mentre la sua era quella di una sorta di Cesare «che torna dalla guerra e riceve il plauso del pubblico», come la descrive Desmond Morris nell’elenco idealtipico delle esultanze ne La Tribù del calcio. La variabile, appunto, stava nella mano. Aperta il più delle volte anche se Tom Maley, lo scultore che ha dato vita alla bronzea statua che si erge al cospetto del Milburn stand a St. James’ Park, ha scelto la versione con solo l’indice al cielo; Clint senza cappello, insomma.
Ora, il bronzo non è esattamente mirabile e, non fosse per la posa, sarebbe anche difficilmente decifrabile, tuttavia è il significato che si porta appresso a parlare e a raccontare come Shearer sia stato assieme regola ed eccezione quale costante di carriera e scelte di vita. Regola perché ha rappresentato precisamente l’emblema classico, quasi lo stereotipo, del centravanti inglese di quel periodo. Non attaccante, meno che mai punta, ma proprio centravanti: quello che gioca spalle alla porta, forte fisicamente, collo taurino e gomiti massicci, quelli appunto come lui, Les Ferdinand, l’ultimo Mark Hughes, Duncan Ferguson, Chris Sutton.