Di calcio si parla tanto e se ne scrive di più, talvolta toccando vette stilistico-culturali di un certo livello. Si scrive di qualsiasi cosa: si mette sotto il microscopio la vita sportiva di un atleta, si raccontano gli aneddoti della storia centenaria di qualche club blasonato, si tagliano con il bisturi le azioni di una partita, i gesti emblematici di un campione. Si buttano giù migliaia di caratteri per cercare di interpretare l’ultima moda tecnica o il labiale di un calciatore scappato all’occhio umano; si tira la coperta del dibattito politico sui piedi dei calciatori cercando in loro la spinta ideologica persa dai politici di professione.
Si scrive in maniera competente e seria di quasi di tutti gli aspetti che orbitano intorno al pianeta calcio, ma da questa grande narrazione collettiva viene escluso il macro tema legato alla nostalgia. Le grandi penne, i fini intellettuali che di calcio scrivono e disputano, l’hanno eletto a nemico giurato: paccottiglia buona solo per accontentare i bisogni di base di una plebaglia indistinta e incapace di intendere la complessità della contemporaneità. Nostalgia come l’oppio dei popoli di marxiana memoria.