Ariel Ortega, il campione con la faccia sempre triste

La malinconica storia di un presunto fenomeno

Ripensando al calcio artigianale del secolo scorso, dove il talento sembrava ancora avere la meglio sulla fisicità, si prova nostalgia. Ariel Ortega sembra essere uno di quei figurini da collezionismo da tenere nella teca e rimirare per ricordare quei tempi: un passato che rimanda a storie che non finiscono sempre con un lieto fine e a volte hanno il sapore del rammarico, ma che si legano alla giovinezza e agli occhi di chi invecchia restando bellissime. Un po’ come i suoi dribbling, che lo resero uno di quei lampi che sembrano poter illuminare a giorno la notte, ma che inevitabilmente durano troppo poco.

Il 1998 è l’anno in cui la Sampdoria può spendere 23 miliardi di lire per acquistare un titolare della nazionale argentina e ambire a una zona UEFA e la Serie A ha sette potenziali candidate allo scudetto. Ortega arriva a Genova dopo che ha vissuto una stagione non brillante a Valencia e ha già fatto la storia al River Plate. Mantovani, che alla Sampdoria donerà tantissima passione e grandi risorse, lo definì “Un grandissimo talento” non mettendone mai in dubbio il valore, e anzi offrendo una lettura particolare qualche giorno prima del suo tesseramento in blucerchiato: “Se Passerella, un tecnico a mio giudizio non portato all’estrosità, lo fa giocare, di fatto il suo benestare mi sembra già un gesto abbastanza significativo”.

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