Dopo i 100, i 200. Usain era così nei suoi giorni di tuono. E quelli di Berlino ricordano un verso del 5 maggio: “di quel securo il fulmine correa dietro il baleno“.
20 agosto 2009: quando il sole rosso va giù, arriva il sole giallo e lui con quelle sue mani dice: “Ora parto, ora decollo“.
E quando il francese Alerte fa una falsa, Usain fa roteare gli occhi, recita la parte del preoccupato. E allo sparo buono se ne sta rintanato un attimo sui blocchi, non si sa mai, intanto risucchiarli in curva è un attimo e non sarà difficile liberare la potenza.
E va così, tutto eseguito alla perfezione, senza disperdere un gesto, senza concedersi una marcia trionfale, o gesti sfrontati. Sino in fondo. Più veloce che a Pechino: 19″19, undici centesimi strappati via, proprio come sui 100 di quattro giorni prima, il suo sesto record del mondo.
Deve esser stordito di gioia: lui nasce duecentometrista bambino prodigio e deve attraversare un lungo corridoio di infortuni, di delusioni, prima di metter le mani su qualcosa di solido, l’argento di Osaka 2007 quando era Tyson Gay il faro.
Ora c’è solo Bolt, lieve come un gas esilarante, che si butta a terra ma non a X, in modo quasi drammatico come a Pechino, quando cancellò Michael Johnson e un record che sembrava dovesse durare millenni.