Arrigo Sacchi aveva dovuto rinunciare presto all’idea di diventare un grande calciatore. Eppure ci aveva provato proprio come ci poteva provare uno come lui, mica per scherzo. Ancora non l’aveva tirata fuori, quella parola che è diventata un approdo sicuro per tutti i contemporanei teorici del pallone. Dispensatori di saggezza e di purezza applicate al pensiero calcistico, quando il loro tenace impegno speculativo si avventura in mare aperto, infilandosi in complicati grafici di linee, diagonali, triangoli; ingarbugliandosi in ambiziose rappresentazioni numeriche di moduli, nella faticosa ricerca di una fonte di significato, di un’unità concettuale da cui tutto derivi e a cui tutto possa essere ricondotto.
Ed allora, in un puro slancio fideistico, dicono intensità. L’intensità, per loro, è ciò che tutto fa nascere, ciò che tutto trasforma, e ciò verso cui tutto si muove. Il motore immobile del calcio. Eppure quando, circa trent’anni prima, proprio Arrigo tirò fuori quella parola per applicarla in un contesto che ad essa risultava sconosciuto, sembrava una pezza messa lì per caso, in mancanza del tassello originale.