È il dieci novembre 2010, sono trascorse le dieci di sera e la Roma sta regolando la Fiorentina con un comodo 3-1 che non lascia trasparire disgrazie: siamo al novantesimo, al sussulto finale, e dai trenta metri viene fischiata una punizione più utile ai fotografi che ai tre punti. A pochi metri dalla palla c’è l’educazione del piede di Adrian Mutu, ferma in attesa dell’autorizzazione arbitrale. Quello che succede al fischio si allontana di molto dal prevedibile: a scagliarsi – con rabbia – su quella palla non è il dieci del rumeno, ma un ventuno che scarica una sassata a scendere che Julio Sergio, il portiere avversario, subisce in una ferrea contemplazione senza tuffo. Tabellino variato, partita ugualmente persa dai gigliati, gesto perfetto, contesto assolutamente sbagliato.
Non è il campo infatti ad esser fuori luogo – terreno utile negli anni passati con Zeman e Capello a una certa educazione al rispetto concretizzata a suon di palloni gonfiati, raccolti e lavati prima e dopo ogni allenamento coi grandi della squadra giallorossa – ma il tempo, la maglia e la storia, quella con il carattere minuscolo giacché la grande, quella dei sogni e degli almanacchi, troppo impegnata con le sue glorie, Gaetano D’Agostino lo sfiora soltanto.