Il calcio ha la sua essenza nei grandi giocatori e nelle loro giocate più sorprendenti: tocchi di palla, dribbling, gol, interventi difensivi ci tengono gli occhi incollati al pallone. Siamo attratti magneticamente da quella sfera difficile da controllare che ci rotola dentro da quando iniziamo a prendere le misure al mondo. Iniziamo in tenera età, talvolta ancora incerti nell’espressione ma ben consci di quello che vogliamo.
Vediamo in campo i nostri beniamini e sogniamo, un giorno, di ripercorrerne le gesta in uno stadio gremito di gente che urla il nostro nome. Crescendo, magari dopo le prime esperienze nelle scuole calcio, incominciamo però a capire che questo sport non spaccia sogni gratuitamente, e che quei campioni che vediamo in televisione provengono da un pianeta che per me noi rimane irraggiungibile.
Ci rendiamo conto che tra il pensiero e l’azione intercorre un oceano di intenzioni rimaste in potenza per limiti fisici o per mancanza di talento. Ce ne accorgiamo un po’ alla volta, allenamento dopo allenamento, al sabato pomeriggio nella partita con gli altri pari età nel campo che confina con la chiesa o al campetto del quartiere dove le porte sono alberi. È forse a questo punto della storia che il nostro sguardo sull’iperuranio calcistico inizia a posarsi anche su chi campione non è: meglio, sui bidoni.