Il ciclismo italiano è a un punto di non ritorno

L'allontanamento di Cassani è solo la punta dell'iceberg

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La Federciclismo ha deciso di rimuovere Davide Cassani dal ruolo di CT della Nazionale. In ammiraglia dal 2014, Cassani aveva l’arduo compito di rilanciare il movimento dopo anni di magra e il desolante vuoto attorno al totem Nibali. Oggi, con lo Squalo in fase crepuscolare, il ciclismo italiano è a un punto di non ritorno: non vinciamo un Giro d’Italia dal 2016, una grande classica dal 2019 e una tappa al Tour de France dal 2019. La Nazionale ha numeri drammatici, senza mondiale da 13 anni e senza olimpiade da 17.

Cassani ha dato molto e paga più di quanto abbia demeritato: il suo personalismo, evidentemente, non è stato digerito dalla nuova presidenza. Ma i problemi del ciclismo italiano sono da cercarsi altrove. Intriso di epos, forgiato dalla sublimazione dell’impresa, il ciclismo è divenuto ostaggio di nevrotici narcisisti, ossessivi-compulsivi di prestazioni, imperterriti ricercatori di pseudo riscatto in uno sport privato dell’elemento meritocratico.

Il ciclismo non è più atto ma azione. L’industria della bicicletta, che ha registrato numeri in crescita durante la pandemia, e l’esercito di pedalatori amatoriali avrebbero dovuto traghettare il movimento favorendo l’inclusione sociale dei giovani e rinvigorendo alle fondamenta un intero movimento. Ma così non è stato. Il tentativo subdolo delle multinazionali ciclistiche sta andando nella direzione sperata: avvicinare i pedalatori domenicali al complesso mondo professionistico. Biciclette a tre zeri, materiali di ultima generazione, la rincorsa all’ultimo accessorio trendy.

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