Si rispettavano, non si amavano. Per certi aspetti si specchiavano l’uno nell’altro. Certo è che due campioni del genere non capitano spesso nella stessa generazione sportiva. Uno è Andre Agassi. L’altro si chiama Pete, Pete Sampras. Due talenti unici, due combattenti che quando si incontravano tiravano fuori il meglio l’uno dall’altro. Anche perché, senza dare il massimo contro tennisti di tale levatura non si può pensare di vincere e neppure di presentarsi in campo.
Personaggi complementari, opposti che si sono attratti e combattuti per 34 volte nella loro carriera. In ogni contesto, su ogni superficie, a ogni latitudine. Se ci fossero due lune non sarebbe mai giorno, eppure ogni volta il sole deve sorgere e dunque almeno una luna è di troppo. Agassi e Sampras sono entrambi figli di immigrati. Il papà di Andre, Emanoul Aghassian (che poi cambierà le generalità in Mike Agassi), è stato nazionale iraniano di pugilato alle Olimpiadi 1948, prima di andare in Occidente e stabilirsi a Las Vegas. È Mike a mettere sopra la culla del figlio una pallina da tennis appesa a una corda, è sempre lui a fabbricare una macchina spara-palle nel giardino sul retro della casa. Lo sport ma soprattutto il mito del successo come necessità compulsive, trasferite per intero su un bambino. Il mito americano del vincente a tutti i costi portato all’esasperazione.