“Papà, chi è quello? E perché non ha la maglia azzurra come tutti gli altri?”. “Quello è Zoff - rispose mio padre - gioca con le mani e non con i piedi, e non deve fare gol. Deve impedire che gli avversari lo facciano”. Mi affascinò quell’essere unico e speciale in un gruppo di ‘uguali’. Avevo sì e no cinque anni, fu una folgorazione. Tutto cominciò così…
Quando ero bambino, c’erano due frasi capaci di tranquillizzarmi e farmi stare bene. Una era ‘e vissero tutti felici e contenti’ con cui si chiudevano le fiabe. L’altra era “ha parato Zoff”. La associo alla voce di Nando Martellini, alle partite della Nazionale, alla maglia grigia di Dino, alle sue basette lunghe ‘anni 70’, al suo sguardo accigliato e fiero che lo faceva sembrare perennemente incazzato. La associo soprattutto alla parata su Oscar in Italia-Brasile del 5 luglio 1982. In quel momento, più che mai, capii il potere magico di quelle tre parole “ha-parato-Zoff”, unite all’immagine di lui che si alza da terra con la palla tra le mani e dice “no! Non è gol!”: il peggio era passato, le paure svanivano e in quell’attimo, finalmente, tutto appariva chiaro. Avremmo vinto noi.
“Se non fosse stato per la coscia di Bergomi che deviò in maniera leggera ma decisiva il tiro di Falcao, nel secondo tempo i brasiliani non mi avrebbero mai segnato. Mi sentivo un leone”, dice oggi il mito, “e quella fu una parata perfetta. Cercai di farla perfetta perché così ero cresciuto: le cose vanno fatte nel miglior modo possibile e in quell’occasione la cosa migliore da fare era bloccare, non respingere”.
Dino Zoff compie 80 anni. Un traguardo a cui arriva alla grande, è in forma come pochi altri ottantenni ma non nasconde il suo sentirsi anziano, né la paura che il Covid, da un giorno all’altro, possa mandare all’aria tutti i suoi accorgimenti per mantenersi in salute (una corretta alimentazione, il golf, un po’ di nuoto al Circolo Canottieri Aniene, le lunghe passeggiate).
Sono cresciuto con il suo mito, innamorandomi del calcio per avere visto lui indossare la maglia grigia della Nazionale, scegliendo come lui di ESSERE portiere (“portiere si è, non lo si fa”), ispirandomi a lui nei comportamenti. Avendo assorbito i suoi insegnamenti, mi fa male vederlo amareggiato per non avere lasciato il segno: “amo ancora il calcio, ma quando qualcuno si butta, si rotola inutilmente o ruba un rigore, mi chiedo: cosa ho lavorato a fare? Cosa racconta a suo figlio quando torna a casa? Le regole dello sport sono chiare, non prevedono l’inganno”. E’ uno dei tanti insegnamenti che mi trasmette nell’intervista che ho avuto il privilegio di fargli per i suoi 80 anni.
Ogni tanto si ferma, sorride, e dice “scusami, so di essere un ‘trombone’ e di essere un po’ pesante, ma io la penso così”. Non si rende conto che invece si starebbe ad ascoltarlo per ore.
Pensa di essere stato il miglior portiere italiano, forse dell’intera storia del calcio mondiale, ma non lo dice apertamente per non innescare polemiche. Sai che caos solleverebbero i seguaci di Buffon e Albertosi?
“Ricky era un grande portiere, ma eravamo molto diversi, impossibile essere amici. So che tanti suoi estimatori lo ritengono migliore di me, ma io ho la mia idea e me la tengo”.
Ha sempre pensato che Buffon giovane sia stato più forte di Zoff giovane, ma se valuta nel complesso la parabola sua e quella di Gigi, Dino si sente superiore per come è stato capace di migliorare anche negli ultimi anni della carriera. Proprio dal confronto con Buffon emerge uno Zoff che non ci aspettavamo, che arriva perfino a definirsi arrogante e presuntuoso: “non critico chi sceglie di scendere di categoria pur di continuare a giocare. Io però ho smesso a 41 anni perché non ero più in grado di fare le cose per bene come andrebbero fatte. Potevo essere ancora un buon portiere, ma la mia arroganza e presunzione mi imposero di smettere, perché o sei il migliore, o ti fai da parte. Vedi che non sono poi così umile come mi dipingono?”.
Zoff crede poco nei record di imbattibilità (1143 minuti in Azzurro senza incassare gol) e molto in quelli di presenze. “Se la palla prende il palo ed entra invece di uscire, il record di imbattibilità va a farsi benedire. Invece è importante il record delle 330 gare consecutive nella Juve. Undici campionati senza saltare una partita con le regole di oggi e gli attaccanti che fanno i furbi sono un primato imbattibile”. Un primato raggiunto applicando un’altra delle sue regole ferree: “perché avrei dovuto lasciare spazio ai miei vice? Se si parla di sport, è giusto che giochi il migliore”.
Zoff è orgoglioso e felice per la sua carriera e per i suoi successi, ma si porta dietro due rimpianti. Il primo è il gol di Magath che gli impedì di chiudere la carriera conquistando la Coppa dei Campioni (“mi fa rabbia sentire dire che quel tiro arrivava da 30 metri e che fu colpa mia. Era un tiro dal limite dell’area ed era imparabile, ma dopo Argentina ‘78 c’era il luogo comune di Zoff vulnerabile sui tiri da lontano”). L’altro grande rimpianto, una ferita sempre aperta, è non avere ottenuto da allenatore i riconoscimenti che avrebbe meritato. Zoff ha vinto Coppa Italia e UEFA (1989/90) con una Juve di secondo piano, detenendo un record sconosciuto ai più: quella squadra è tutt’ora l’unica nella storia del calcio ad avere vinto una coppa europea senza incassare nemmeno un gol fuori casa. Nemmeno Dino lo sapeva, e farglielo presente aumenta la sua incazzatura per essere stato sostituito con Maifredi al termine di quella stagione (“hai lì un buon Barbaresco, e lo sostituisci con uno spumante spacciato per Champagne. Puttana Eva!”, mi disse qualche anno fa lasciando da parte ogni diplomazia).
Ci furono poi i buoni piazzamenti alla guida della Lazio e l’Europeo 2000 da CT Azzurro, sfumato contro la Francia all’ultimo secondo e poi al golden gol, a cui seguirono le inaccettabili critiche di Silvio Berlusconi (“Zoff è stato indegno”). Dino, offeso come uomo, si dimise e da quel giorno il mondo del calcio gli voltò le spalle: “potevo far finire tutto in cavalleria? No, io no. Il mio fu un gesto rivoluzionario in un’Italia in cui nessuno si dimette mai. Sapevo che lo avrei pagato e così è stato. Non sono pentito. Come allenatore potevo avere di più ma ci voleva una componente di immagine che forse non ho mai curato, dovevo essere più ‘personaggio’ ma è una cosa che non fa parte del mio modo di essere. A me è bastato parare… E pararmi con i risultati”.
“Pararmi con i risultati”… Saluto Zoff dopo l’intervista e torno a casa con questa frase che mi rimbomba nella testa, con in mente l’immagine del mio eroe felice e al tempo stesso triste. Felice per avere ottenuto tanto, triste per non avere ottenuto di più, per il fatto di sentirsi un uomo il cui esempio è caduto nel vuoto, per avere sperimentato sulla propria pelle che fare le cose per bene e con onestà non basta.
Non credo di esserci riuscito, ma chiacchierando con lui a margine dell’intervista ho provato a fargli capire quanto gli sia grato. Per avere alimentato il mio sogno di diventare come lui (non ci sono riuscito, ma è stato bellissimo provarci); per avermi fatto sentire per la prima volta un gigante davanti a mio papà (lui non credeva si potesse vincere contro il Brasile, io, da bimbo incosciente e sognatore, sì); per avermi trasmesso la passione di difendere la porta, la fierezza di ESSERE portiere, la felicità di godermi il gioco più bello del mondo da là dietro, dal punto di osservazione più bello del mondo. E grazie per avermi tranquillizzato mille volte, scacciando via le mie paure. Le nostre paure. “Ha parato Zoff”.