La storia riassunta in tre nomi: da Riccardo Cassin a Reinhold Messner passando per Walter Bonatti. La via per la vetta dell’alpinismo di buona parte del Ventesimo Secolo ce l'ha riassunta nel corso di un incontro stampa organizzato da DF Sport Specialist lo stesso Messner, “scaldando” le linee-guida del suo concetto di alpinismo tradizionale (tutt'altra cosa rispetto allo sport), prima della straordinaria serata-evento per la presentazione del film dedicato all'intenso e delicato rapporto con lo stesso Bonatti, che lo scorso 22 giugno avrebbe compiuto novantadue anni. Messner peraltro declina come sempre la responsabilità di definirsi un caposcuola, rivendicando una volta di più la… “libertà di andare dove voglio.”
Reinhold, prima di entrare nel vivo dell'argomento, vorrei chiederle se - nella sua valutazione e per la sua esperienza - esiste ed ha una ragion d'essere sulle montagne più alte del pianeta un’etica dell’alpinismo che vada al di là della… inevitabile, forse addirittura necessaria autoreferenzialità?
RM: Prima di tutto l’alpinismo è un fatto molto egoistico. Chi va a fare alpinismo estremo lascia a casa madri, padri, mogli e bambini, ben coscienti a quali rischi si va incontro. Vuol dire dimenticarsi le proprie responsabilità e dire: io vado perché questa è la mia vita e l’egoismo mi permette di farlo. Partire per una grande avventura è puro egoismo. Andare in ferie sulle Dolomiti a camminare è un’altra cosa. Walter Bonatti forse viveva ancora parzialmente uno spirito idealista. Lui aveva la sua etica. Io questo lo accetto: che ognuno abbia la propria etica, ma un’etica generale per me non esiste. Ne possiamo parlare se applichiamo il concetto al futuro del mondo e dell’umanità, per dire questo è giusto e questo è sbagliato. Però in alpinismo morale ed etica dovrebbero essere messi da parte.
Il nome, la figura e l’opera di Walter Bonatti punteggiano tutta la nostra intervista con Reinhold Messner. L’occasione - imperdibile e forse irripetibile - di conversare a quattrocchi con il primo essere della nostra specie a toccare la cima dei quattordici “ottomila” del pianeta Terra (in stile alpino - quindi leggero - e senza ricorrere al cosiddetto ossigeno artificiale) è arrivata grazie alla presentazione di “Fratelli si diventa”, il film che Alessandro Filippini e Fredo Valla (produzione StudioEffe) hanno dedicato al complesso rapporto tra Reinhold e Walter Bonatti, sbocciato nell’ormai lontano 2004, per poi arricchirsi attraverso una serie di incontri (puntualmente documentati nel film) fino alla morte del grande protagonista dell’alpinismo degli anni Cinquanta e della prima metà degli anni Sessanta, avvenuta il 13 settembre del 2011.
Spazio quindi all’intervista, realizzata al C-Hotel di Cassago Brianza, a margine dell’incontro riservato alla stampa che ha preceduto di un paio d’ore l’affollatissimo evento al DF Sport Specialist store di Bevera di Sirtori, nella Brianza lecchese, nel corso del quale Reinhold ha inevitabilmente distinto tra alpinismo tradizionale e sport, prendendo le distanze dal turismo ad alta ed altissima quota, anche e soprattutto quello delle spedizioni commerciali sui giganti di pietra e ghiaccio del pianeta.
Reinhold, c’era già un libro dal titolo “Il fratello che non sapevo di avere” ed ora c’è un film che si intitola “Fratelli si diventa”. Allora io le chiedo: chi era Walter - prima di… diventare un fratello - nel suo immaginario di ragazzo e di aspirante alpinista?
RM: Quando ero un bambino e poi un ragazzo e mi arrampicavo non ancora sul difficilissimo ma già sul difficile, io adoravo Bonatti. Avevo già capito che era unico, specialmente dopo la sua solitaria del 1955 sul pilastro sud-ovest del Petit Dru (nel Monte Bianco, ndr). La preferivo alla sua opera sul K2 o al Gasherbrum IV perché quelle montagne erano troppo lontane e poi, avendo io iniziato molto presto a scrivere le mie impressioni e la storia delle montagne che avrei potuto scalare, Walter è diventato nella mia concezione dell’alpinismo il caposcuola del suo periodo, prendendo il posto di Cassin in questo ruolo: dai primi anni Cinquanta e fino al 1965 (per Bonatti l’anno dell’addio all’alpinismo con la solitaria invernale sulla parete nord del Cervino, ndr), riassumendo nella sua carriera tutto quello che era stato l’alpinismo tradizionale nei cento-centocinquant’anni precedenti. Tutti noi alpinisti abbiamo preso Bonatti come punto di riferimento. Ora tocca a me portare avanti la sua eredità e raccontare ai giovani alpinisti il senso dell’alpinismo tradizionale, che ruota proprio intorno a Bonatti. Per arrivare al succo di questa concezione dell’alpinismo non serve citare tanti nomi e tante vie. Si finisce per banalizzare. Basta concentrarsi sulle figure-chiave e nel mio caso su quella di Bonatti.
Di Bonatti l’ha ispirata - appunto globalmente - la sua figura oppure esiste un episodio della carriera di Walter oppure una sua realizzazione specifica che lo ha fatto in modo particolare?
RM: Per me l’impresa più bella di Bonatti è stata la solitaria sul Petit Dru, soprattutto sapendo come ci è riuscito e quali erano le sue motivazioni (il “riscatto” dopo le vicissitudini della spedizione italiana al K2 del 1954, ndr). È chiaro che quello che Walter aveva fatto sul K2 era stato più rischioso, dimostrando oltretutto di poter sopravvivere a condizioni terribili in altissima quota. Il Gasherbrum IV (nel 1958 con Carlo Mauri) poi è stata una grande ascensione su una montagna che sfiora gli ottomila metri. E non bisogna dimenticare che Bonatti è riuscito a sopravvivere alla tragedia del Pilone Centrale di Freney del 1961, dimostrando di avere forze sovraumane. Nessun altro poteva fare quello che ha fatto lui. Walter riuscì ad aprire ai suo compagni la via della salvezza e, se quattro di sette persero la vita, ciò significa che Walter si spese fino allo stremo per riuscire a salvare Pierre Mazeaud e Roberto Gallieni.
Il passaggio compiuto da Bonatti scendendo dal Cervino e dedicandosi all’esplorazione ha dei punti in Comune con quanto fatto da lei al termine della sua carriera himalayana, per poi darsi all’esplorazione in qualche modo “orizzontale”?
RM: La mia attività sugli "ottomila" era concentrata su questo tema: le montagne più alte del pianeta Terra. Insieme alle dita dei piedi avevo perso la possibilità di arrampicare ma ho sempre avuto quella di spostarmi rapidamente in aereo e di autofinanziare le mie spedizioni. In precedenza invece Bonatti ma anche Mauri ed Achille Compagnoni dovevano seguire le regole di chi pagava. Nella spedizione italiana del K2 nel 1954 era stato Ardito Desio a procurare i mezzi, anche finanziamenti statali e gli alpinisti erano un po’ “intrappolati” da questa situazione. Io ed i miei contemporanei abbiamo fatto quello che abbiamo fatto perché siamo stati in grado di ridurre le spese e di autofinanziare le nostre spedizioni di stile alpino, quindi leggero. La banca non ti dà i soldi per salire sul K2 e senza i soldi per pagare i portatori non puoi partire. Devi liberarti dai finanziamenti esterni. Questa libertà Bonatti non se la poteva ancora permettere, io invece sì. Così ho potuto raggiungere velocemente il Nepal oppure il Pakistan, per poi dedicarmi alla marcia di avvicinamento alla montagna e tentare la cima. Da questo punto di vista Bonatti ed io siamo diversi.
Quando poi sono partito per le traversate della Groenlandia, dell’Antartide e del Deserto del Gobi non l’ho fatto allo scopo di studiarne la geografia o la geologia. Ci sono andato - come facevo in montagna - per affrontare un’avventura basata sulla sopravvivenza. Come è accaduto ad esempio nel caso dell’Antartide, anche se in quel caso l’idea l’ho presa da Ernest Shackleton, un esploratore inglese che ci si era avventurato nel 1914 ma che non era riuscito nell’impresa perché la nave Endurance era rimasta bloccata tra i ghiacci e lui ed i suoi compagni avevano dovuto lottare per salvarsi. Quella era stata la grande avventura, diversa da quella vissuta da me ed anche da Bonatti: un’avventura nata da un incidente, che li ha costretti a mettersi in salvo, riuscendoci. Io tra l’altro non vedo nei viaggi di Bonatti - terminata la sua carriera alpinistica - una vera e propria ricerca. Lui viaggiava come fotoreporter, andava a conoscere posti che erano molto poco conosciuti, dimostrando di potersela cavare al Polo Nord come in Antartide. Però a lui non interessava attraversare l’Antartide.
Per me l’idea iniziale, il progetto, quello che dava il senso a ciò che volevo fare, nasceva in me: nel caso dell’Antartide copiando Shackleton. Al Polo Nord era una cosa simile: andare dalla Siberia al Canada passando per il Polo Nord. Non ci siamo riusciti, abbiamo fallito: non è grave ma è successo. Bonatti andava da fotoreporter, lui era capace di raccontare attraverso i suoi scatti ed i suoi scritti quello che viveva in Alaska oppure in Africa o nella marcia verso al K2. Però non si trattava di scienza o di esplorazione, perché tutti questi luoghi erano già noti e lui non ci è andato da scienziato. L’esplorazione la fai solo se vai da scienziato, per ragioni di studio. Al limite la scalata dell’Everest senza ossigeno artificiale può essere considerata esplorazione. In questo caso non a livello di itinerario di salita fino alla vetta, perché quella l’aveva già individuata Edmund Hillary, ma come possibilità – che era stata esclusa dalla scienza - di salire senza respiratori. È molto più bello fare avventura che esplorazione: esplorazione è lavoro, avventura è gioco!
La letteratura di montagna, il resoconto delle proprie avventure o lo studio delle popolazioni locali (quello che lei ad esempio ha dedicato agli sherpa) contribuiscono a restituire quello che ha ricevuto dalle montagne?
RM: Questo è qualcosa che ho fatto… in un’altra dimensione, restituendo alle genti dell’Himalaya quello che mi hanno regalato: le esperienze che ho vissuto ma anche la mia salvezza. Ho portato mezzi ed aiuti. Ho costruito quattro scuole attorno al Nanga Parbat: la prima intitolata a mio fratello, come ringraziamento per avermi salvato la vita, le altre perché mancavano del tutto nelle vallate più alte, dove i bambini erano esclusi dall’istruzione. Inoltre la Hillary School, nella valle del Solo Khumbu, è stata ricostruita per un terzo dalla mia fondazione e per un terzo da un mio amico, dopo essere stata danneggiata dal terremoto del 2015 in Nepal, aiutando la Fondazione Hillary che non aveva modo di provvedere, se non per il rimanente terzo. Tutto questo l’ho fatto negli ultimi vent’anni, senza farmi pubblicità e proseguirò a farlo fino a quando riuscirò a tenere in vita la mia fondazione. Probabilmente la lascerò ad ottant’anni (Reinhold ne compirà settantotto il prossimo 17 settembre, ndr). Volevo farlo già a settantacinque ma ci sono tante richieste d’aiuto e voglio provare ad occuparmene finché ho la forza di andare avanti.
Però io non vedo l’alpinismo in se stesso e l’avventura dell’alpinismo come un fatto positivo oppure al contrario negativo. Se uno ha la voglia, la forza, l’entusiasmo e la grinta di fare, allora faccia! Io seguo le mie regole, ma sono le mie, non valgono per altri. Me ne sono dato quattro: A, B, C e D. No Artificial oxygen, no Bolts (io non ho mai piantato un chiodo ad espansione in vita mia), no Communications e no Drugs. Sono le mie quattro regole, ma nessuno deve seguirle! Io non critico chi non le segue e se uno non lo fa io non dico: non hai etica. No, ognuno ha il diritto di andare in montagna come vuole. Ed è per questo che non critico chi sale sull’Everest lungo una pista tracciata dalle guide sherpa. Dico soltanto: non è alpinismo. In realtà, per quello che io racconto, non mi interessa. Nei miei libri ho descritto il fenomeno, però io non conosco il nome di neanche una delle sette-ottomila persone che sono arrivate in cima alle montagne più alte del pianeta con questo “stile”.
Questo concetto della libertà di fare diversamente da quello che fa lei si applica anche… a suo figlio Simon?
RM: A ventisette anni d’età ho scritto un libro dal titolo “La libertà di andare dove voglio”. Questa libertà me la sono elaborata e non me la faccio togliere da nessuno: neanche da mio figlio.