“Vivere è meglio che vincere”. Parole che in questo momento tagliano l’anima indebolita dal dolore, arrivano fino in fondo, nel luogo dove si conservano i sentimenti più sinceri. Le diceva spesso, Gianluca Vialli. Le disse per la prima volta quando il Milan era disposto a qualunque sforzo economico pur di aggiungerlo alla sua squadra stellare. Fine anni ’80, quando ancora non era chiaro che la sua Samp sarebbe arrivata a un passo dalla Coppa dei Campioni. L’avrebbero riempito di soldi, ma durante quel corteggiamento infinito lui ripeteva come un mantra che non si sentiva in grado di rinunciare a momenti meravigliosi come quello del risveglio, quando apriva la finestra e vedeva il mare. Libero pensatore in un libero mondo, ma reso libero proprio da lui che poteva permetterselo.
È stato un grande calciatore, un buon allenatore, un ottimo commentatore televisivo. Avrebbe potuto essere bravo in qualunque altro mestiere, perché la sua classe innata lo portava a relazionarsi con chiunque nello stesso fantastico modo. Poteva trovarsi di fronte il re d’Inghilterra o un impiegato delle poste: il suo atteggiamento lasciava trasparire sempre la stessa positività, la stessa sensazione di essere trattato alla pari. Il suo approccio alla vita risentiva della positività che lo circondava fin dalla nascita, ultimo di cinque figli, famiglia agiata che si sarebbe potuta permettere di farlo studiare, di farlo diventare qualunque cosa, di spalancargli davanti un’autostrada per aiutarlo ad andare lontano.
Caso raro nella strana storia del calcio, lontano ci è arrivato appoggiandosi sulle proprie forze. Quella classe innata, quel suo essere sempre un passo avanti agli altri, lo trasformò in un giocatore immarcabile per tutta la prima parte della sua carriera. Quel numero 11 inizialmente stampato sulla sua maglia gli valse qualche paragone con Gigi Riva, mentre la sua provenienza cremonese ispirò al leggendario Gianni Brera l’appellativo di “Stradivialli”. Era il periodo in cui giocava senza parastinchi (all’epoca era consentito) e usciva dal campo con una poltiglia di sangue sugli stinchi. Si faceva la doccia, si passava una pomata e via, era pronto per prendere altre botte e per dare altri dispiaceri ai difensori che lo vedevano con il binocolo, perché era mingherlino ma veloce e potente come un centometrista. Con Mancini fu subito grandissima intesa, perché parlavano la stessa lingua calcistica, perché erano così avanti che quel linguaggio era una loro esclusiva, incomprensibile per gli altri, soprattutto se vestiti con maglie diverse.
Vujadin Boskov lo convinse ad abbandonare l’amato numero 11 e a vestire il 9, perché così si sarebbe autoconvinto di essere un bomber vero, un punto di riferimento per la squadra. Non ce n’era bisogno, perché Gianluca sapeva benissimo quanto valeva. Ma proprio perché era di un’altra categoria, fece contento il suo allenatore. Proprio quello dal 1989 al 1992 è il periodo in cui Vialli ha scritto la storia della Sampdoria. Uno scudetto incredibile e irripetibile, vinto con l’autorità della grande squadra, una finale di Coppa dei Campioni persa a Wembley solamente alla fine di una battaglia infinita contro il Barcellona.
Poi c’è stata la Juve. Un capitolo a parte, vincente e maturo. Inizialmente complicato, con infortuni, con una trasformazione atletica che lo rese più potente, con l’idea trapattoniana di trasformarlo in centrocampista. Poi, con Lippi, quella Coppa dei Campioni finalmente alzata al cielo da capitano. Periodo importante, periodo vissuto da uomo e calciatore maturo, chiuso poi con il trasferimento al Chelsea che ha rappresentato la svolta importante anche dal punto di vista personale, con il trasferimento definitivo a Londra, il perfetto inserimento nel mondo anglosassone, l’altrettanto perfetto apprendimento della lingua inglese. Ma non c’erano dubbi, perché era così avanti che si sarebbe fatto amare ovunque. Così come si è fatto amare nel suo periodo da capodelegazione della Nazionale, un vero signore, un guru per i ragazzi che vestivano la maglia azzurra, un esempio per tutti, compreso il suo amico Mancini che gli stava seduto accanto in panchina e non perdeva occasione per chiedergli un consiglio. Vivere è meglio che vincere. Chissà cosa avrebbe dato per vivere ancora, anche senza vincere.