ENDURANCE RUNNING

Miraggi, maionese e mucche pazze: Guendalina all'avventura sui sentieri di UTLAC250

La ultrarunner milanese Guendalina Sibona rivive per sportmediaset.it i 250 chilometri dell'Ultra Trail del Lago di Como

di
© Stefano Jeantet

Conoscete la differenza tra una prova endurance e un vero e proprio viaggio? È tutt'altro che banale e distingue la performance sportiva vera e propria dall'avventura tout court. Per metterla a fuoco ci siamo (di nuovo!) rivolti a Guendalina Sibona che in materia la sa davvero lunga (nel vero senso della parola) e che qualche mese fa ci aveva raccontato il suo Tor des Géants. Abbiamo chiesto alla ultrarunner, viaggiatrice e scrittrice milanese dai riflessi "lacustri" negli occhi e nel cuore di raccontarci la sua esperienza lungo i duecento chilometri della seconda edizione di UTLAC (Ultra Trail del Lago di Como) che la nostra amica ha tra l'altro concluso sul terzo gradino del podio e nella top ten assoluta. Lo abbiamo fatto certi di un altro risultato finale: questo che state per leggere (se vi va). Il suo racconto di viaggio tutto intorno al Lario, reso ancora più intenso dalle condizioni meteo a tratti proibitive.

© Stefano Jeantet

Un rumore sordo mi rimbomba nella testa. Un rumore bianco, di quelli che funzionano con i neonati per farli addormentare. Un’amica usava quello del phon: attivava il suono dal cellulare e suo figlio Pietro si addormentava all’istante. Quello che sento io è scroscio monotono di pioggia e per me ha lo stesso effetto. Aggiungiamoci che è notte, anche se non saprei dire esattamente che ore siano. Quello che so è che è buio pesto, fa freddo, gli occhi mi si chiudono e io devo continuare a camminare.

In salita, chiaramente.

E che salita! La strada militare che, con una serie infinita di tornanti, porta verso il Monte Crocione, proprio sopra Menaggio. Ogni tre passi, le palpebre si abbassano e io scivolo nell’oblio. Ma è solo un attimo: con un impulso automatico si riaprono e torno vigile per altri due passi. Al terzo, gli occhi si chiudono di nuovo. E intanto nelle orecchie rimbomba lo scroscio amplificato sotto il cappuccio della giacca impermeabile. La luce della frontale non regala emozioni, non promette sorprese, non svela obiettivi vicini a cui puntare nella mia cieca arrancata. Ci sono solo questi tornanti. Saranno duecento. Trecento forse.

Ritmico ondeggio senza fine.

Più salgo, più il freddo si fa intenso. I guanti sono zuppi e le dita ghiacciate. Il fiato è corto e quasi doloroso. Camminare in salita quando hai un sonno fottuto è straziante. Un passo, un altro, e poi solo il buio. Mi abbiocco, sbatto la racchetta fuori dal sentiero, mi desto, apro gli occhi.

“Max, mi siedo e dormo un attimo qui".

Il mio pacer, che mi cura le spalle, e forse si assicura che non voli giù dal dirupo, è categorico:

“No, Guè, non si può fare: è tutto pieno di pozzanghere e fa troppo freddo".

Procedo fino al tornante successivo. Questo continuo cambio di direzione mi culla dolcemente. Diabolicamente. Il sentiero è melmoso, i pantavento sono schizzati di fango, il cappuccio sgocciola sulla fronte. Il lago laggiù non c’è più, i monti di qua non si intuiscono neppure, le stelle e la luna neanche a parlarne.

Buio. “Io dormo un momento…”

“Non si può"!

Un passo, un altro, buio.

© Stefano Jeantet

Se uno me lo domandasse adesso, non saprei dire cosa sto facendo. Ho solo una certezza: la salita prima o poi finirà. Bella scoperta! Ma vai a spiegarglielo a una nelle mie condizioni. Provo a concentrarmi: in fondo sono passata di qui con Ivano, poche settimane fa. Quando la salita finisce… C’è l’arco di cresta! E c’è il Rifugio Venini! Ecco il mio obiettivo.

E poi, dove andrò? Si vedrà.

Una mente più lucida saprebbe raccontare che sono circa al centoquarantesimo chilometro della seconda notte di gara. Sto correndo la seconda edizione di UTLAC, l’Ultra Trail del Lago di Como, un percorso da sogno che, partendo e tornando a Lecco, gira intorno al lago in senso antiorario. Eravamo una sessantina sulla linea di partenza ieri sera. Dopo averci presentati uno per uno, alle diciotto in punto lo speaker fa il conto alla rovescia e grida il Via!

© Guendalina Sibona

Mi ritrovo subito a correre con passo sicuro sul Sentiero del Viandante. Un percorso che conosco bene, che ho camminato e corso tante volte da sola o in compagnia, e che, nella prima parte, passa sopra Mandello del Lario, il mio paese d’adozione. Alessandro Gilardoni, papà del Trail Grigne sud che parte proprio da lì (oltre che uno dei miei migliori amici) mi tallona breve distanza ma, tempo di arrivare a Lierna, lo perdo. Dev’essersi fermato a fare qualche video come al suo solito.

Salgo ad Ortanella con Alain, un ragazzo mio coetaneo - a quarant’anni si dice ancora ragazzo? - che viene dall’alto Lago Maggiore, zone che appartengono alla mia infanzia. E mentre sto immaginando tutti i chilometri che potremmo percorrere insieme e chiacchierare del Monte Lema, del Lido di Maccagno e delle gelaterie di Luino, mi accorgo di essere partita a manetta e di averlo perso.

Procedo nella nebbia fitta, ma sicura sulla traccia ben nota. In discesa verso Varenna, supero una concorrente iraniana e provo a tirarmela dietro, ma poi vedo Pierre-Henri, senatore del Tor des Géants e grande esperto di lunghe distante e decido di mettermi in scia. Galoppiamo insieme, passando sull’Orrido di Bellano - stranieri, usate la fantasia perché è notte e non si vede nemmeno il ponte, figuriamoci la gola - e arriviamo a Dervio. Qui devo fare una menzione particolare al Crotto del Cech, dove è allestito il ristoro, perché la proprietaria, alla mia sfacciata richiesta, mi offre un tubetto di maionese.

Poche verità e molto semplici, come ad esempio: se hai crackers e maionese in una notte densa di umidità, tutto è più allegro. E gustoso.

Il primo tratto della gara termina a Colico, dove, oltre che con Pierre-Henri, arrivo col francese Matthieu, il mitico Luca Guerini, Valentina e Giulio. Li ho recuperati solo perché, non essendo di queste parti, ai bivi hanno avuto qualche dubbio col gps. Già, perché per aggiungere avventura a un percorso così lungo, mettiamoci anche che non è balisato: ci si muove con la traccia al polso.

© Stefano Jeantet

Alla prima base-vita, quelli che mi precedono non si fermano granché. Li vedo ripartire senza neanche un cenno. Al solito, il mio spirito competitivo latita e preferisco scambiare due chiacchiere con lo speaker che è in giro a far cagnara e con Teresa, la mia amica che è qui a fare il tifo per me. Mi cambio i vestiti zuppi di umidità e mangio un bel piatto di pastasciutta. Pane e prosciutto. La maionese, stavolta, ce l’ho io nella borsa. Starei ancora qui a...cazzeggiare ma il Pian di Spagna, la palude dall’esotico nome che spiana la strada all’Adda nella sua immissione nel lago, mi attende.

Quattordici chilometri in piano!

Orrore. Non c’è altro modo per dirlo. Nessuno che corra in montagna è felice di battere tanto piattume, ma non si può fare altrimenti per attaccare l’altro ramo del lago. Quindi me ne faccio una ragione e non porto rancore verso gli organizzatori. Tutto sommato, me la spasso anche, tra i canneti animati dal gracidare delle rane. Qualcuna attraversa lo sterrato con salti baldanzosi e io, che in fondo in fondo, sono una milanese-di-Milano-Milano, mi entusiasmo sempre in mezzo alla... fauna selvaggia.

Il cartello stradale di Sorico annuncia che è finalmente ora di mollare l’asfalto e tornare sui più congeniali sentieri. Sul finire della notte, attacco la salita che mi porta ad agganciare la Via dei Monti Lariani. Alle prime luci dell’alba, sono al Rifugio Dalco. Caffè, pane e marmellata ma soprattutto Teresa col suo sorriso e il suo affetto mi rimettono in marcia carica a mille. Posso solo parlare gran bene di tutto il tratto in costa che dal Dalco conduce a Garzeno. Una quarantina di chilometri che percorro a passo scanzonato e cuore leggero. Condivido fatica e gioia - inseparabili quando giochi all’ultra trail - con Matthieu, Giulio e Matteo Maggi. Verso la fine agganciamo anche Luca Guerini e Valentina, che, dall’inizio, procedono insieme.

Sono certa che vendano gelati e ghiaccioli al chiosco del Parco Avventura sopra a Garzeno e ripongo infondate e inutili speranze nel fatto che possa essere aperto un giovedì mattina di metà maggio. Sono affranta e disperata quando lo trovo - com’è ovvio - chiuso sprangato. La discesa nel bosco però, è divertente, la compagnia rigenerante e tiro io il gruppo per almeno mezzo chilometro. Poi torno al mio posto e mi concentro sulle priorità: mangiare, ovviamente.

© Guendalina Sibona

A Garzeno, non solo c’è Teresa ma anche Marco, il mio compagno. Mi basterebbe vederli per sentirmi rinfrancata, ma loro hanno anche un vassoio di pizza. Dall’auto salta giù anche il mio cane e mi lava la faccia, mentre io mi sto già abbuffando. Marco offre un trancio a tutti i miei soci. Difficile rifiutare la pizza dopo più di cento chilometri. Matthieu riparte in quarta e io gli vado dietro... o davanti quando sbaglia strada e lo richiamo sulla traccia giusta. Attacchiamo la lunga salita che ci porterà sul punto più alto del percorso: 2107 metri, il Monte Bregagno. Ci va... di culo che il meteo regge e il sentiero, seppur bagnato, non è troppo scivoloso. Il gruppetto si ricompatta giusto prima della vetta e, alla croce, possiamo fare una foto tutti insieme.

Lascio andare le gambe sul pendio dolce che, dalla cima, scende sul lago, mentre in cielo si addensano le nuvole.

© Guendalina Sibona

La base-vita di Plesio, dove ci accoglie un gruppo di giovanissimi tifosi entusiasti assoldati dall'organizzazione, è un punto cruciale, perché è a metà percorso e da qui - da regolamento - è concesso avere un pacer: il primo di tre consentiti a coprire gli ultimi centotrenta chilometri. Entro poco dopo Matthieu, che è in benzina e farà una sosta brevissima, e appena prima degli altri quattro che viaggiano a passo molto costante, come consono a un ultra trail.

È un punto cruciale, dicevo, e io sbaglio tutto. Arrivo pensando di trovarci Marco e Max (il mio primo accompagnatore) e invece non vedo né l’uno né l’altro. Temporeggio: mi faccio una doccia, mi cambio, mi lascio strapazzare i polpacci dal massaggiatore Roberto e mangio al tavolo con Paul, un olandese sorridente che, dall’inizio, mi precede ai ristori. Visto che è sorridente, gli offro la maionese. Quando la vede s’illumina.

“Guarda cos’ho io!” esclama ed estrae dallo zaino un wurstel!

La magia di queste gare.

© Guendalina Sibona

Decido di andare a coricarmi e cercare di dormire, magari un paio d’ore, perché tra poco inizierà la seconda notte e sono sicura di non poterla reggere senza un po’ di riposo come si deve. Solo che, sdraiata sulla branda, non prendo sonno. Sento gli altri ripartire in gruppo. Avverto le rotelle del mio cervello che girano a vuoto. Max non c’è. Marco neppure. Che fare?

Poi l’intuizione (sbagliata): se sto qui sdraiata a non far niente, perdo tempo. Mi alzo, sistemo la borsa, mi allaccio le scarpe, m’infilo lo zaino, saluto tutti e riparto.

Inversa di bestia.

Un minuto dopo, il cielo si apre a metà e scarica uno scroscio potente proprio sopra la mia testa. Tocca fermarsi subito e coprirsi per bene: pantavento e guscio. A Menaggio, finalmente, Max mi aggancia. Tiro un sospiro di sollievo, felice di avere l’amico al fianco.

“Ce l’hai la traccia?” gli chiedo, pensando sia una domanda retorica.

“No...” mi risponde lui prendendomi in contropiede. “Seguo te.”

Siamo a posto!

E allora vado avanti io, verso le ore più fonde della notte e verso il sonno che, inesorabilmente, mi assalirà di lì a poco, in salita sulla strada militare tutta tornanti che porta al Venini.

© Massimo Fioroni

Quando siamo in cresta, la pioggia è quasi nevischio. Bagna e consuma: i piedi sono a mollo da ore, non si vede a più di un metro. La sagoma del rifugio si rivela all’improvviso sbucando dal nulla. Spingo la porta e quello che vedo è un divano piazzato davanti a un camino acceso.

“Posso?” domando con un filo di voce al volontario che ci accoglie. E stramazzo lunga e distesa.

Due ore dopo.

Fuori il meteo è pure peggiorato. Non si vede nulla, ma ho riposato e Max s’è fatto una birra in compagnia di un omonimo. Ci vuole così poco.

“Piacere Massimo.”

“Massimo anch’io!”

“Una birretta?”

Max non rifiuta mai una birretta.

E via che si riparte!

© Guendalina Sibona

Della Valle d’Intelvi non vediamo nulla. Fino al Rifugio Prabello sono chilometri di fango e di nebbia. Spegniamo le frontali e proseguiamo convinti di aver passato il peggio. Prima del Rifugio Bugone insisto per fotografare Max che salta tra le pozzanghere. Documentare e condividere con gli amici in chat che ci tengono a sapere come abbiamo superato la notte. Così: tra le pozze di melma!

Tutte le discese dal Monte Bisbino sono brutte - va detto - perché sono ripide. Però finiscono in fretta, soprattutto se s’affaccia un timido raggio di sole. Il mio umore va di pari passo col meteo e mi ritrovo a correre in picchiata. Sensazione distorta (ovviamente) dal delirio di onnipotenza: siamo al centonovantesimo chilometro, non posso andare davvero così forte come penso. Ma la percezione è tutto. E io mi affaccio in base-vita un attimo prima del quartetto formato da Luca Guerini, Valentina, Giulio e Matteo Maggi, già definiti i Quattro Moschettieri.

Come vorrei avere anch’io un passo così costante. E invece no! Tiro e rallento come fossi sempre ubriaca. Non conosco le mezze misure. Entro in base-vita a Cernobbio e mi perdo tra le incombenze: mangiare, lavare, cambiare, mangiare, massaggiare, dormire, mangiare.

Due ore dopo.

© Marta Poretti

Il mio secondo pacer, il Nino, è pronto a partire. S’è pure regolato la barba! Sfiliamo sul lungolago di Como con la smania di tornare in fretta sui sentieri. Mi succede sempre così: dopo ore di fango, trovo l’asfalto e gioisco. Dopo trecento metri d’asfalto, voglio di nuovo quei sentieri di fango.

Brunate val bene una rampa. Verticale, s’intende.

Facciamo un po’ di ghirigori tra le vie del paese: il gps non prende bene il segnale, la linea sullo schermo dell’orologio m’inganna. Il Nino, l’orologio neanche ce l’ha. Per non farci mancare nulla, ci becchiamo pure la grandine. La cosa non mi turba: ho il guscio e i pantavento, sono riposata e in compagnia. Può venir giù quel che vuole. E così succede. La Dorsale Lariana fino alla Colma di Sormano ce la facciamo sotto la pioggia. Marta, organizzatrice infaticabile, la sta percorrendo in bici e ci immortala chiusi nelle giacche con la cerniera tirata su fino al naso.

Al ristoro, Marco e Teresa hanno rimesso in piedi Luca Brambilla, un ragazzo di appena ventisei anni (stavolta posso dire ragazzo) che, dopo aver tirato dietro al terzo dalla partenza fino a qui, aveva deciso di ritirarsi per il freddo.

“Non ci si ritira per il freddo, se ci si può coprire!” Gli ha detto Marco, dandogli una maglia e una giacca.

Luca s’è riposato per delle ore, fino al nostro arrivo.

“Adesso vai con loro”. Marco ha sempre un buon consiglio per tutti.

© Stefano Jeantet

E così ripartiamo in tre, verso la vetta di quel panettone infinito che si chiama San Primo. Passiamo vicino a una mandria. Non siamo evidentemente i benvenuti, perché una mucca abbassa la testa e ci corre contro puntando le corna. Il Nino la rimette al suo posto e quella si gira sgroppando incazzata. L’aria è carica di tensione in tutti i sensi e, quando siamo all’attacco della cresta, la pioggia diventa temporale e un vento spietato ci spinge da sud. Sarà forse la Breva? Me lo domando perché - da milanese - non voglio esprimere certezze che non possiedo. Sta di fatto che raggiungere la cima è cosa ardua, il freddo ci punge le guance e i polpacci e l’unica cosa che ci porta su è il pensiero che di là la furia degli elementi si calmerà.

© Guendalina Sibona

Scolliniamo poco prima della mezzanotte.

Il vento si acquieta davvero. Solo che la discesa è molto più ripida di come la ricordavo. E scivolosa, dopo tutta la pioggia caduta. Luca si attarda, ma promette che non mollerà. Io proseguo al mio ritmo con una fame bestiale, immaginando porzioni appetitose di arrosto e patate, polenta e salsiccia. Lascio i tendini e le rotule nel fango e arrivo a Bellagio, dove Marco mi ha portato il riso con le zucchine e la mia ultima pacer, Teresa. La mia amica fortissima, che, l’anno scorso è arrivata seconda.

“Ti ricordi il percorso?” le chiedo sperando che almeno lei sia orientata.

“Neanche un passo!”

A posto!

© Guendalina Sibona

Pacer senza traccia, pacer senza cognizione, pacer che seguono invece che far strada. Pacer fantastici, i migliori che si possano avere, garantito. E poi questo è il Sentiero del Tivano, l’ho fatto più di una volta: non dovrebbe essere complicato seguire la via. Solo che l’ho sempre percorso nell’altro verso e oggi non mi ci raccapezzo affatto. Civenna, il Ghisallo, Magreglio. Ci perdiamo nel bosco, giriamo in tondo, svarioniamo un po’. Io giuro di non essere mai passata di qui, Teresa non si ricorda.

Guardo il lago e vedo… Un ponte!

Un ponte in mezzo al lago.

“Ma dove siamo, Tere?”

“Non ne ho idea! Però, Guè, il ponte non c’è.”

Eppure l’ho visto. Rovi, fango, pietre sconnesse.

“Di qua non si passa”.

“Torniamo indietro, aggiriamo quel dosso”.

E poi Crezzo, all’orizzonte, mi riporta alla mente una linea familiare. Il percorso del Trail dei Corni. Basta farlo al contrario!

“Corriamo, Teresa!”

E l’umore torna su, perché non c’è niente di meglio di una corsetta all’alba con un’amica. Anche se il mondo ha ancora quel colore grigio opaco, almeno non piove più. Mi fermo a bucare una vescica. Teresa, da buon medico, mi dissuade dall’usare un ago di riccio per l’operazione. Le ginocchia reggono ancora sul pendio leggero. Il ponte sul lago era solo un effetto ottico per le nuvole basse. Una curva, un’altra curva, le tracce nel fango di quelli che ci precedono.

Eccoci a Maisano. Siamo così affiatate e su di giri che manchiamo il ristoro. Quale peccato capitale da me commesso: salto proprio il ristoro degli amici di Valbrona che mi aspettavano con tanto di striscione! Ma ormai non resta che la salita ai Corni di Canzo che per me sono casa. Salita nel pantano, ovviamente, ma chi se ne frega. Al Rifugio SEV, incrociamo Andrea. Ha le brioches nello zaino e ce le offre. Poi ci saluta.

“Vado da Alessandro!”

Alessandro è a Brunate. Non lo prenderà mai. La discesa su Valmadrera ci regala i primi raggi di sole. A Malgrate fa caldo. Resto in maglietta dopo due giorni di pantavento e strati impermeabili. Corriamo sul lungo lago come due schegge. Giurerei a 4 e15 se qualcuno me lo chiedesse. A 7 e 20 dichiara il mio Suunto. Ma i numeri sono relativi quando passi i centocinquanta.

© Guendalina Sibona

Sul Ponte Nuovo c’è Gerry che strombazza in moto, Stefano che filma pedalando in bicicletta, Massi che ci corre incontro e poi esclama: “Vi aspetto al traguardo” e corre avanti, solo che andrà fino in Piazza dei Cappuccini (sede dalla partenza ma non dell’arrivo!)  e non lo vedremo più. Max, ci affianca per l’ultimo chilometro col suo pettorale da pacer in vita.

Di solito non mi piacciono gran che gli arrivi, preferisco continuare a correre. Questa volta, però, tagliare il traguardo con Teresa e Max accanto, Marco e gli amici che mi aspettano urlando, è roba forte e io mi godo tutto il tifo e tutti gli abbracci, soddisfatta anche della prestazione.

La traccia del giro intorno al Lago fa un certo effetto già sulla carta, ma viverla... viverla è proprio tutta un’altra storia. Una gara nata da poco, in cui si respira un’atmosfera spensierata e familiare, dove i volontari ti conoscono per nome e si fanno in quattro ovunque. Una gara che ha tutte le caratteristiche per diventare una prova rinomata, un percorso fantastico che tutti dovrebbero provare.

© Stefano Jeantet
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