“Beppe Barenghi - Monte Api 15-6-1954 Nepal - Himalaya”. Un nome, una data, una montagna: in rilievo su una targhetta metallica ossidata dal tempo e fissata precariamente (ma da diversi decenni) al legno altrettanto intaccato dal tempo e dall’alternarsi delle stagioni alpine di un crocefisso dalla struttura anch’essa “provata” ma al tempo stesso solidissima. La minuscola placca (passa largamente inosservata) ricorda uno degli sfortunati alpinisti della spedizione italiana che - ormai quasi settant’anni fa - mosse in direzione del Tetto del Mondo, in ogni suo componente determinata a calcare per la prima volta la vetta del Monte Api, imponente piramide ghiacciata da 7132 metri di quota nell’Himalaya del Garhwal (Nepal). Emblematicamente nello stesso anno (anzi negli stessi mesi) nel quale un’altra e molto più numerosa carovana di alpinisti di casa nostra metteva sotto assedio il ben più conosciuto K2, sul cui punto culminante Achille Compagnoni e Lino Lacedelli nel cuore dell'estate avrebbero offerto il tricolore all'aria sottile dell'altissima quota del Karakoram, in Pakistan.
Due spedizioni tra di loro agli antipodi, al di là della rotta comune verso l’Himalaya, oltretutto intrapresa in contemporanea (anzi in simultanea) volando sullo stesso aeromobile il 15 aprile del 1954. Leggera e in stile alpino quella al Monte Api, pesantemente monumentale (o monumentalmente pesante) quella alla seconda vetta del pianeta. Finanziata dalla stato quest’ultima, privatamente invece (in buona sostanza dai suoi stessi componenti) quella al settemila nepalese. Funestata dalla tragedia questa, coronata da un successo infarcito da polemiche andate avanti decenni la prima. Parte da questa multiforme contrapposizione “L’altro K2 - La Tragedia del Monte Api” (Ulrico Hoepli Editore - collana Stelle Alpine diretta da Marco Albino Ferrari, in collaborazione con il Club Alpino Italiano), il libro che Matteo Serafin ha dedicato alla ricostruzione puntuale (tra cronaca degli eventi, storia dell’alpinismo e psicologia dei suoi interpreti) della sfortunata spedizione primaverile al Monte Api che, nelle intenzioni del suo promotore, doveva anticipare quella nazionale.
Le polemiche seguite alla tragedia che si consumò in Nepal furono inevitabilmente "superate" e spente dal successo di Compagnoni e Lacedelli e da settant'anni a questa parte l'ombra incomparabilmente possente del K2 oscura la memoria della spedizione al Monte Api. Fin dal suo titolo, il volume denuncia il contrasto tra la soverchiante e “chiassosa” spedizione al K2 (che entra graficamente in scena prima dello stesso Api, relegato al sottotitolo), diretta con piglio e modi militareschi da Ardito Desio e quella ben più leggera e "romantica" guidata da Piero Ghiglione. Due personaggi tra di loro agli antipodi, ma uniti da alcuni significativi tratti in comune: piccoli per statura ma giganti dell’avventura, figli del Ventennio e ad esso debitori almeno di parte delle loro fortune professionali. Non bisogna dimenticare che alla metà degli anni Cinquanta Ghiglione era sulla… cresta dell’onda dA molti anni: fu tra l'altro l’ideatore del Trofeo Mezzalama di scialpinismo, la cui prima edizione risale al 1933: due interi decenni prima del Monte Api.
Il libro procede verso l’altissima quota su questi piani paralleli, che di capitolo in capitolo cedono il centro della scena (per poi ripetutamente riguadagnarlo) alla vicenda del Monte Api. Sì perché si tratta anche di restituire luce e riconoscenza allo stesso Ghiglione, allo sherpa Norbu (cugino di Tenzing Norgay, solo un anno prima conquistatore dell’Everest a fianco di Edmund Hillary) ma soprattutto ai tre giovani alpinisti italiani Roberto Bignami, Beppe Barenghi e Giorgio Rosenkrantz. Ai quali Ghiglione (come abbiamo visto già avanti negli anni ma instancabile) si era affidato per massimizzare le chances di successo della sua spedizione, contando di poter lui stesso posare piede in vetta: altra e sostanziale differenza con Desio, che non affrontò mai la montagna (nel senso del K2). Analogie e differenze senza soluzione di continuità, fin dalle simulazioni” preliminari sul comune terreno del Monte Rosa, a rilanciare continuamente la sfida di settant’anni fa ma anche e soprattutto - per quanto ci riguarda - la lettura delle duecentoventiquattro pagine del volume.
Più volte compagno di cordata di Walter Bonatti su itinerari di grande impegno e difficoltà, Roberto Bignami perse la vita nell’attraversamento di un precario ponticello, ancora durante la marcia di avvicinamento. Il milanese Barenghi (allievo della scuola di alpinismo “Parravicini” guidata da Carlo Negri) e il piemontese Giorgio Rosenkrantz - direttore della “Gervasutti” di Torino - scomparvero nella tormenta durante il tentativo di vetta, dal quale fece ritorno solo lo sherpa Gyaltzen Norbu, unico sopravvissuto insieme al capospedizione Piero Ghiglione, rimasto di fatto escluso dal "summit push" (come si dice oggi), ormai in prossimità dello sfortunato epilogo di un’avventura nella quale la determinazione comune iniziale aveva “inesorabilmente” lasciato il posto ad una progressiva tendenza all’anarchia o comunque all'autogestione rispetto al centro (impensabile invece per il gruppo guidato da Desio!). Un cambio di paradigma che aveva in qualche modo finito per fare da premessa alla tragedia incombente.
Nel suo lavoro di ricerca, l’autore ha potuto contare su diverse fonti: gli archivi del Club Alpino Italiano e i diari di Rosenkrantz, consultati grazie alla collaborazione della figlia Erika (nata pochi mesi dopo la morte del padre) e al libro scritto a ricordo di Giorgio dalla moglie Marisa. Tutt’altro che la mera cronaca di una spedizione alpinistica, insomma, oltretutto fin dalle due stesse fondamenta “perdente” nel confronto con quella rivale del K2. Risulta invece essere il finissimo studio psicologico (frutto di un grande sforzo di ricerca) dei personaggi impegnati sul campo. Proprio per via del suo imprevedibile sviluppo in situazioni-limite come quelle provocate da un ambiente estremo, settant’anni fa ancora più di oggi. Passioni, sogni, ambizioni e debolezze dominano lo scenario, al punto da dare conto e ragione di ogni singolo episodio della spedizione, fino al suo esito controverso. Da questo punto di vista, fatte sotto ogni punto di vista le debiti proporzioni, tutto questo è ugualmente vero per il K2.
Pura avendolo già fatto, occorre rimarcare ancora una volta l’accuratezza del lavoro dell’autore e aggiungere a questo il carattere prezioso del contributo del Club Alpino Italiano: soprattutto quello iconografico, del quale pure noi ci siamo largamente avvalsi in questa sede. “L’altro K2 - La tragedia dimenticata del Monte Api” riscatta la storia dell’ambizioso progetto di Ghiglione, il senso e il valore di un anniversario che non è solo quello dei settant’anni del K2 “Montagna degli Italiani” e infine la memoria di Giorgio Rosenkrantz, Roberto Bignami e Beppe Barenghi.
A proposito di Barenghi, e per tornare alla nostra premessa iniziale, per chi non ne conosceva l’esistenza, occorre svelare il mistero iniziale. Il malandato ma stoico crocefisso e la targhetta metallica si trovano lungo il comodo sentiero tra i larici che colma in pochi minuti di facile marcia l’altrettanto limitato dislivello tra Alpe Forbicina e il Rifugio Tartaglione-Crispo, a poca distanza dalla località di Chiareggio, in Alta Valmalenco. “Beppe Barenghi, Monte Api 15-6-1954 Nepal - Himalaya”: oggi bastano poche parole-chiave digitate su una tastiera per svelare in tempo reale il mistero. Impiegammo invece più tempo noi, tanti anni fa, imbattendoci nel manufatto. In parte lo rimane, un mistero: chi ha inciso la targhetta? Chi l’ha applicata sul legno? chi ha posizionato il crocefisso? Perché proprio lì, in un luogo così poco… alpinistico, a parte lo straordinario scorcio sulla parete nord del Monte Disgrazia (e sui suoi “satelliti” Punta Kennedy e Pizzo Ventina) che - per rimanere in tema - pur nella sua magnificenza è alto poco più della metà del Monte Api?
Forse è una location appartata quanto... discreta era (ma solo nella modalità) la spedizione del 1954. E forse proprio Matteo Serafin ci può venire in aiuto. Non ha in fondo tutta questa importanza: è semplicemente bello immaginare Barenghi in marcia su questi sentieri, magari in compagnia di Bignami, al quale peraltro (tre anni dopo la sua scomparsa) la sezione milanese del CAI avrebbe dedicato uno dei rifugi più noti della zona (sull’altro ramo della Valmalenco).
Senza dimenticare - visto che ormai siamo qui - che la storia dell’alpinismo è di casa tra queste montagne. Da queste parti infatti terminò la vicenda umana di Ettore Castiglioni, ricordato da una lapide posta dal GISM (Gruppo Italiano Scrittori di Montagna) sul muro esterno di quel piccolo gioiello di storia, arte e fede che è la chiesetta di Sant’Anna, sulla piazzetta di Chiareggio. Dalla quale lo sguardo può raggiungere la sella rocciosa del Passo del Forno, nei cui pressi il grande alpinista veronese trovò la morte alla fine dell’inverno del 1944, nel corso della sua ultima missione partigiana, poco più di dieci anni prima del Monte Api. Tra la croce di Barenghi e la roccia alla cui base Castiglioni si addormentò non ci sono che tre chilometri in linea d'aria.