Il tifo si divide, il giornalista studia la situazione, Sarri e la Juventus vanno avanti per la loro strada: ecco che il fatidico triangolo delle squadre a contatto (sempre più indiretto) con il popolo del calcio torna per un istante assoluto protagonista della scena. D’altronde è finito il calciomercato delle grandi architetture finanziarie (non escluso quello della Vecchia Signora, anzi più complesso per dimensioni rispetto a quello delle altre concorrenti italiane) e la sfera tarderà a rotolare in campionato con l’avvicinarsi per il momento soltanto fascinoso della Champions League edizione 2020. E quindi irrompe sulla scena Emre Can, il condannato colpito dall’unico proiettile che le liste Champions League ancora imponevano a Sarri (sì, credo che la scelta finale sia stata sua, credo che Paratici avrebbe fatto diversamente, ma credo altresì che in un’estate dove il tecnico ha potuto metter poco becco sia stato giusto lasciare la pistola della responsabilità in mano all’uomo che avrà in mano il destino reale della stagione entrante). E quindi irrompe il triangolo: tifosi sorpresi forse dalla scelta, sicuramente dall’uscita verbale del tedesco dal ritiro della sua nazionale, riconquistata con parecchia fatica; giornalisti che cercano di ricostruire ed entrare meglio dentro il modo di comunicare dei referenti Nedved - sempre piuttosto schietto e convincente, stringato e chirurgico, senza fronzoli e sicuro di sé e della sua Juve - e un Paratici invece più ermetico e più opaco, interessante la prima faccia della medaglia, perturbante la seconda.
In tutto questo c’è un Maurizio Sarri atteso al varco dai cultori del verbo comunicare, secondo i quali - e non ho dati per confutare, ma solo per osservare - nel calcio drogato dall’avvento di Mourinho in Serie A questo “fondamentale” pesi per il 50% di ciò che vediamo in campo, perché a loro volta incidono le testate giornalistiche e dunque i giornalisti, in un calcio in realtà sempre più senza filtro nel trasferire la propria vetrina d’esposizione direttamente al pubblico, che a sua volta ha gli strumenti per restituire autonomamente qualcosa (di apparentemente diretto) ai protagonisti. Ecco, Maurizio Sarri ha parlato per l’ultima volta con i media il 10 agosto scorso a Stoccolma nell’immediato dopogara dell’amichevole con l’Atletico Madrid: “Situazione sotto gli occhi di tutti: abbiamo sei calciatori da tagliare per la Champions e il mercato non ci viene incontro. Non è né questione di scelte di Sarri né questione di scelte di Paratici, e magari, se venderemo, andrà via qualcuno che non vorremmo cedere”. Questo il riassunto. Di seguito la sintesi degli eventi successivi: l’unico a uscire (in prestito) è Luca Pellegrini, e sono cinque; Pjaca e Perin, lo annuncia preventivamente a quindici giorni dalla chiusura del mercato lo stesso Paratici, sono giocatori infortunati e dunque non accasabili, e ne restano tre. La decisione del club la si percepisce a una settimana dal gong, mentre arrivano due successi che ricollocano Khedira e Matuidi là dove erano un anno fa: Mandzukic e Rugani sono i due destinatari espliciti della casella esclusioni, l’infortunio di Chiellini riposiziona Rugani (nel frattempo scalzato da un Demiral impressionante in allenamento) e la bagarre sull’ultimo nome si decide come tutti sappiamo.
Un Sarri quindi profeta, che usò pericolosamente l’aggettivo “imbarazzante” in un ambiente che rigetta di esporre eventuali punti deboli. E’ sempre stata la forza della Juventus questa capacità. Un Sarri che poi riappare, dopo due settimane abbondanti di quarantena, proprio attraverso le parole di Emre Can: è il mister a comunicargli l’esclusione, è (pare) il mister stesso ad averlo assicurato dopo Parma, e con il Psg alle costole (ma il club transalpino e il centrocampista ex Liverpool non risultano mai essere stati così vicini come invece si lascia intuire), assicurazione verbale ma anche illusoria per Can dopo esser stato coinvolto presto - primo cambio non forzato - sul 2-0 nell’importantissima partita contro il Napoli. Sarri dunque tirato in ballo per il bavero, assurto a soggetto attivo e “colpevole” nel momento in cui il lavoro nell’ombra aveva bisogno di rimanere tale se non altro per lasciare quelli di cui sopra, quelli che aspettano con il fucile puntato le sue parole antinconvenzionali di calcio, di commento, parole che invece gli juventini attendono con ansia per dimostrare al mondo e a se stessi ancora una volta che la Juve può tutto. E che nelle relazioni esterne non ha eguali. La Juve che, come disse un grande dirigente al momento della scelta di un allenatore del passato che non convinceva troppo la piazza: “Mi chiedi se è bravo? Se non è bravo, lo facciamo diventare bravo noi”. E quando a Torino dicono bravo, ve lo garantisco, intendono bravo in tutto. E il triangolo di cui sopra, con il campo come vertice alto, diventa all’improvviso di una normalità assordante. Prima accadrà, meglio è.