Come Lewis, più di lui, Max Verstappen ha reso onore a Senna nella terra di Senna con una performance di quelle che trenta e più anni fa hanno reso Ayrton il mito che è ancora oggi. Finalmente "d'accordo", Max e il suo predecessore nell'albo d'oro del Mondiale: Hamilton più consapevolmente ed emozionalmente, portando in pista prima del Gran Premio del Brasile la meravigliosa McLaren MP4/5B guidata da "Magic" nel 1990, Verstappen badando invece - obbligatoriamente - alla sostanza, mettendo di fatto sotto chiave con la vittoria a San Paolo il quarto titolo consecutivo. Quello che, dopo aver fatto pari l'anno scorso con lo stesso Senna (oltre che con Brabham, Stewart, Lauda e Piquet), gli permetterà di affiancare Alain Prost e di incamminarsi eventualmente verso il podio all-time, occupato da Juan Manuel Fangio (cinque titoli) e più su ancora dallo stesso Hamilton e da Michael Schumacher a quota sette.
Un passo (e un titolo) alla volta, casomai e sempre che Max - non ci sorprenderebbe affatto - non decidesse di lasciarsi alle spalle tutto il carrozzone del Mondiale (a volte, come lo scorso weekend a San Paolo - non sembra molto più di questo) per dedicarsi ad altro, magari anche solo ai suoi amati e-sports. In questo, Max è davvero figlio dei nostri tempi, pur restando inevitabilmente ancorato alla storia delle corse, nonché erede di una genia di campioni assoluti trasversale alle epoche, alle mode e ai regolamenti.
Non significa nulla la sequenza di giri veloci in pista, non conta solo quel primo giro stile Senna '93 a Donigton, nemmeno la rimonta da fondo griglia: ciò che smonta e rimonta il fenomeno Verstappen nel giro di un pomeriggio (e in via definitiva) è quell'unico sorpasso ideale che Max opera ai danni di quella che era la diffusa considerazione altrui nei suoi confronti: un pilota fortissimo che però domina il campo grazie ad un mezzo superiore alla concorrenza. Qualcosa che in fondo attiene alla storia stessa del motorsport (a quattro e a due ruote) e al tempo stesso uno snodo-chiave in quella personale dei suoi più grandi protagonisti di ogni tempo.
La sua dimostrazione di classe nel Gran Premio del Brasile di quest'anno vale da sola quasi quanto tutte le sessantuno che l'hanno preceduta. Quantomeno le riassume e le comprende, in ogni caso più di esse fa storia e ci restituisce la vera dimensione di un campione che quest'anno ha dimostrato di saper soffrire in pista e fuori, puntando i piedi (sul gas e non solo), tenendo assieme e spingendo tutta la squadra, tenendola di fatto a galla in mezzo alle tempeste (e non parliamo di quelle del recentissimo weekend brasiliano). Proprio come avevano saputo fare Senna ai tempi della Lotus e della McLaren e Schumacher alla Ferrari. Il senso del successo di San Paolo e ciò che distinguerà il suo quarto titolo dai tre precedenti è proprio questo. Lui non ne sentiva l'urgenza, tantomeno la mancanza. O forse sì e questo potrebbe renderlo ancora più forte e temibile. Più determinato ancora nelle sue risoluzioni, magari anche quelle più clamorose.