Giunto alla terza edizione, il TGS è una prova che chiede veramente tutto. Ho “mancato” solo la prima edizione, quella 2017, debuttandovi poi dodici mesi fa, quando il chilometraggio dai 38 del primo anno è salito a 41 chilometri: di fatto una trailmarathon! Insomma, una faticata … E visto che per portarla a termine fin sotto il gonfiabile del traguardo ho dovuto fare tutto da solo, almeno per descriverla e per scriverne come si deve questa volta ho pensato bene di chiedere un aiutino. Quindi ho invitato l’amica e collega Tatiana Bertera Manzoni a dividerci l’incombenza, affidandole il compito di raccontare il risvolto umano della giornata. Per farlo più liberamente, Tatiana ha affrontato il TGS senza indossare il pettorale, partendo in coda al gruppo per poi gradualmente rimontarlo ed intercettare il maggior numero possibile di atleti, volontari, rifugisti. Il risultato sono gli appunti di viaggio che vi proponiamo. Con un ringraziamento particolare alla nostra “guest reporter” - alla quale qui sotto lasciamo la parola - per il suo prezioso contributo e per le immagini che illustrano questo servizio.
IL RACCONTO DI TATIANA
Gli atleti alla partenza sono un centinaio, forse qualcuno di più. Nella maggior parte dei casi chiacchierano tra di loro. Parlano di gare, di materiali, qualcuno deve finire “veloce”, perché è “scappato” dalla famiglia giusto giusto per la mezza giornata della competizione. Fino a quando non arriva il momento importante: quello in cui tutti sono chiamati a registrare il chip del proprio pettorale e posizionarsi nella griglia di partenza. Per molti la gara inizia proprio in questo momento, prima ancora del via, perché la testa sta giù correndo su sentieri, inerpicandosi su tratti scoscesi e misurandosi su discese più o meno ripide. La testa è già lassù, oppure per alcuni è già qua, traslata avanti di qualche ora, con una birra in mano e la medaglia (quella da finisher, tanto basta) appesa al collo.
Nel primo tratto, su strada, c’è chi scherza per sdrammatizzare i quarantuno chilometri e il dislivello che lo attende. Ci si scruta a vicenda, nella pancia del gruppo, più per curiosità che per senso di competizione dal momento che quelli forti, quelli che battagliano, sono già volati avanti. Nasce qualche curiosità sui materiali, sulle scarpe che ognuno sta utilizzando anche se poi, in fondo lo sappiamo tutti, a fare la differenza saranno più le gambe che la suola. Certo il ragazzo dai tratti orientali che sta davanti, con le sue Five Fingers e il pettorale 76, attira l’attenzione di molti. “Ciao, ma sicuro che con queste arrivi alla fine?”. Mi guarda e sorride, senza fermarsi, e risponde di essere “sopravvissuto”, con le stesse, anche ad altre gare. Sono comode a suo parere, o semplicemente si è abituato. Qualcuno ironizza su come se la caverà sulle discese oggi particolarmente scivolose, ma lui pare non sentire e va dritto per la sua strada. Ma come dicevo sarà lui, e non la suola, a fare la differenza, e arriverà alla fine.
La prima grande salita, quella che porta al Monte Pilastro, è lunga e impegnativa. Qualcuno, che ha deciso di affrontare la gara senza bastoni, rallenta. Per parecchio tempo vengo preceduta dalla silenziosa Monica. Pettorale 65, capello corto biondo, procede a passo regolare. Mai troppo veloce e mai troppo piano, sa di dover dosare accuratamente le forze per arrivare bene alla fine. Correre in montagna richiede una certa strategia. Bisogna conoscersi e diventare, in un certo senso, calcolatori. Capire quando è il momento di dare gas e quando invece, è meglio rallentare, perché i chilometri sono ancora tanti. E poi, strada facendo, può capitare di conoscere Gerolamo (“Gero”, per gli amici). Una vera forza della natura. Rigorosamente senza bastoni, affronta i tratti più ripidi aiutandosi di tanto in tanto con le mani e spingendo forte sulle gambe. Ha il pettorale numero Uno e qua sembra essere un vero vip. Lo conoscono un po’ tutti e ai ristori lo salutano calorosamente. Ha sesantanove anni e dice di essere, probabilmente, il più “vecio” in gara. Dice che da qualche anno ha mollato, che si accontenta del risultato che arriva, ma mentre sale controlla più e più volte l’orologio. Viene dal mondo dello scialpinismo e “da giovane” era anche uno scalatore. Conosce tutti i sentieri, e tutte le pareti, da queste parti. Sui tratti in discesa lascia passare qualcuno: “Vai vai, che io la discesa la faccio pianino”, ma poi è sempre là davanti, che non molla un colpo. La Porta di Prada è una gigantesca Polo (chi se le ricorda le Polo? Le caramelle col buco?) posta lì sulla montagna. Un arco di pietra che vedi da lontano, come una visione, e che poi ti si piazza davanti, appena svoltata una curva e all’improvviso. Uno dei punti più spettacolari e panoramici della gara.
Dal quale parte il lungo traverso che, tra piccole salite e corribili discese, porta al Rifugio Bietti Buzzi. Anche qua, chi ha la gamba buona, fa la differenza. Al ristoro del rifugio Bietti gli atleti passano veloci, quasi senza fermarsi. Pensano alla discesa che li attende e che porterà all’Alpe Era, primo cancello orario, a cinque ore dalla partenza. Il dislivello nelle gambe è già parecchio e - per qualcuno - la fatica comincia a farsi sentire. La differenza principale tra portare un pettorale e non portarlo è che (se non ti senti formalmente in gara) puoi fermarti e guardarti attorno più a lungo. Puoi osservare gli altri, cercare di indovinarne le paure così come gli attimi di gioia, puoi conoscere le persone e cercare di capire il perché di quel pettorale. Per chi non corre, quelli che corrono sono “tutti matti”. E quelli che corrono, dal canto loro, vanno fieri di quell’essere così matti. Il pettorale forse certifica (e giustifica) il fatto di essere tanto matti. Per molti la stessa fatica, senza quel numerino fissato alla maglia o appeso in vita, non avrebbe senso. E poi c’è Luca. Giovane, sulla trentina o poco meno, pantalone giallo e calzettone blu ad altezza ginocchio, sta correndo la sua prima gara trail. La prima. È partito senza bastoni e, già nel primo tratto, ha deciso di confezionarsene un paio con due rami. Perché la salita, senza, è troppo dura e stancante. Perché le sue gambe sono buone, ma forse non se la aspettava proprio così.
Dice che è dura, durissima, fatica ma non molla. Credo che questa settimana, Luca, andrà a comprare un paio di bastoni e forse dalla prossima gara li utilizzerà. Chissà come ha avuto l’idea di partecipare al TGS! Forse questa sera dichiarerà di aver chiuso con la corsa, ma domani starà già pensando alla successiva. Per me Luca, che è arrivato a Mandello poco prima della chiusura del cancello e dentro il tempo massimo, è il vero vincitore del TGS 2019. Perché ha sorriso fino alla fine, con un sorriso stanco e tirato. E ha tagliato il traguardo correndo sulle sue gambe stanche. E ce l’ha fatta, Luca. Ha chiuso la sua prima gara, e che gara!