#Pioliout: l’hashtag-trend è cominciato lunedì sera e non è ancora finito. Non sarà facile: una piazza contrariata e insoddisfatta, l’occhio di bue mediatico puntato. Pioli non è certo il nome che infiamma la folla; anzi – in questo preciso momento storico – la inferocisce e la fomenta. Una folla che ha subíto 9 cambi in panchina negli ultimi 5 anni e che dagli stessi non riesce a raggiungere la chimera del quarto posto. Che ha subíto gli esperimenti Seedorf, Inzaghi, Brocchi e Gattuso (quest’ultimo definirlo tale rimane comunque azzardato) e che dopo Giampaolo esigeva un allenatore vero, affermato, soprattutto dopo aver sfiorato con un dito Luciano Spalletti, uno che la Champions l’ha raggiunta due volte negli ultimi due anni proprio ai danni del Milan.
Non infiamma, ma è meglio di Giampaolo. Questo per rispondere ai tanti che «per prendere questo qui, tanto vale tenere Giampaolo». Perché mai? Innanzitutto perché è un mister svincolato da principi tattici contrastanti con gli ingredienti che Boban e Maldini mettono a disposizione. Che sembra poco, ma l’adattamento – di Suso e di tutto il Milan – al caposaldo del trequartista ha di fatto buttato alle ortiche il lavoro di un’intera estate, se si considera che dopo la prima ad Udine si è poi tornati al 4-3-3 di partenza. Pioli è più elastico e pratico, predilige il risultato al gioco e ha già vissuto la pressione di una piazza importante.
E l’esperienza sponda nerazzurra parla da sola: 7 vittorie consecutive che portarono la scalata dal decimo al quarto posto, sfumato dopo che le voci di un contatto con (ancora lui, guarda un po’) Spalletti cominciavano a farsi più concrete. Pioli ha esperienza, un biglietto per la Champions guadagnato con Lazio sul curriculum e sa dare un’identità alla squadra, costruendo rapporti umani forti e veritieri. Non a caso la Fiorentina dello scorso anno, dopo il suo esonero, è crollata fino alla zona retrocessione scampata giusto con un “biscotto” casalingo con il Genoa all’ultima giornata. Mai un abbraccio, mai una dimostrazione: quello che colpisce ancora oggi tifosi e addetti ai lavori è la totale assenza di empatia e attaccamento con Giampaolo da parte dei ragazzi, che per Gattuso invece avrebbero sputato sangue. È indubbio: Luciano da Certaldo, eccezion fatta per Allegri, era il miglior allenatore disponibile in circolazione. Meglio di Garcia, meglio di Shevchenko, meglio dello stesso Pioli.
È uno che in otto anni in Italia l’accesso nell’Europa che conta l’ha sempre centrato (a parte una volta), che ha carisma e idee chiare. Per farla breve, è uno che con l’organico tra le mani ha sempre ottenuto il massimo che poteva fare: i secondi posti con la Roma, gli scudetti con lo Zenit e le due qualificazioni Champions con l’Inter. Ma – al netto delle indiscrezioni sulla telefonata con Marotta uscite stamani – in questo momento storico non avrebbe fatto al caso del Milan. Troppo abituato a grandi contesti per avere la pazienza di aspettare Bennacer, Paquetá e Leao. E soprattutto troppo attaccato al dané, come si dice qui a Milano. Aver detto definitivamente no al Milan dopo non essere riuscito ad ottenere quello stipendio di un anno da parte dell’Inter conferma quanti pochi stimoli ci fossero nella testa dell’ex nerazzurro di intraprendere questa gincanica avventura con il Diavolo. Dunque meglio così, largo a chi di motivazioni ne ha. E buona fortuna.